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    "TORNERANNO I PRATI": LA GUERRA DOLENTE DI ERMANNO OLMI

     

    “TORNERANNO I PRATI”: LA GUERRA DOLENTE DI ERMANNO OLMI - di GIUSEPPE RUSCONI – www.rossoporpora.org – 23 novembre 2014

     

    Per il centenario dell’inizio della Prima Guerra Mondiale in sala il film controcorrente di Ermanno Olmi, un grande e umanissimo affresco del dolore di chi nelle trincee (non solo dell’Italia nord-orientale) è stato costretto a combattere una guerra definita giustamente da papa Benedetto XV un’ “inutile strage”

    Un film noioso, opprimente…non è come ‘Guerre stellari’, non ha azione, non c’è gusto, non ha effetti speciali”… Così alcuni internauti hanno salutato l’uscita di “Torneranno i prati”, il film di Ermanno Olmi che fa memoria della Prima Guerra Mondiale nel circuito commerciale dal 6 novembre. Sono commenti minoritari e tuttavia fotografano incisivamente le difficoltà cui l’ultima opera del regista bergamasco deve far fronte per essere apprezzata da tante e affollatissime sale in tutta Italia, come meriterebbe. La nostra è ormai una società sostanzialmente ‘liquida’, fondata sul ‘mordi e fuggi’, dominata in larga parte dalla provvisorietà e dunque superficialità di ogni scelta, permeata da una cultura televisiva (pubblica o privata che sia) perlopiù fatua o ambigua o direttamente sovversiva in materia antropologica, nutrita dal mito del denaro e della svendita di se stessi per riuscire ad ‘arrivare’: come potrebbe mai una società siffatta dare il giusto valore a un’opera che va controcorrente e scandaglia volti e cuori dei soldati di una trincea italiana d’alta quota nell’Italia nord-orientale, in una notte gelida, tra silenzi prolungati, interrotti a volte dal suono inquietante di campanacci penzolanti dai cavalli di frisia? 

    Ermanno Olmi non ha fatto un film sulla Prima Guerra Mondiale, ma sul dolore della guerra; in questo caso sull’ “inutile strage” (Benedetto XV) che sconvolse l’Europa dal 1914 al 1918, decretandone tra l’altro l’avvio di una crisi irreversibile che l’avrebbe portata a perdere la primazia nel mondo. E’ un dolore che pervade gli ottanta minuti del film, segnati dalla messa in dubbio di un trinomio ben radicato nella società di allora: Dio, Patria e Famiglia. E’ la crisi dell’amore per una patria diventata matrigna, una patria che ha tradito i suoi figli per portarli a combattere, logorarsi e morire in una guerra voluta dai poteri forti d’allora, adusi a spostare le pedine sulla scacchiera dei propri comodi uffici. E’ la rivolta di alcuni contro un Dio che si “è nascosto” e, del resto – osserva uno dei soldati – se “non ha ascoltato suo Figlio sulla croce, vuoi che ascolti noialtri?”. E’ l’amara constatazione di altri che dei familiari non si ricordano nemmeno più i volti o che, durante una licenza, hanno scoperto che la moglie li tradiva. Sì, restano pur sempre gli ‘Ego te absolvo peccatis tuis’ per il soldato che si offre per una missione impossibile, “criminale” in effetti come rileva un altro dei protagonisti; i ‘Requiem aeternam’ per i tanti morti causati dai mortai nemici da parte del cappellano; le preghiere intense dei familiari. Restano anche, un po’ sgualcite, le fotografie della moglie, dei figli, dei genitori o le lettere tanto bramate spedite da casa e appese accanto ai giacigli in camerata. Ma è tutto un mondo che in quella trincea, simbolo di tante altre trincee di guerra, declina verso il tramonto.

    L'ATTESA ANGOSCIOSA SI NUTRE ANCHE DI 'PICCOLE COSE'

    E’ anche il film dell’attesa, angosciosa, di quel che potrà accadere a chi sta in quella trincea. Una notte d’inverno, sepolti sotto quattro metri di neve. Inizialmente il rombo dei mortai nemici giunge da lontano. C’è ancora tempo perché chi porta il rancio e le lettere (Andrea di Maria) canti - stagliandosi ben visibile sopra la trincea nella notte di plenilunio - la struggente ‘Fenesta ca lucive’, applaudito anche dai soldati che vegliano nella vicina trincea austriaca. Il canto, emozione universale che affratella. Un canto napoletano, anche a certificare come nella trincea italiana si parlino diversi dialetti della Penisola (da questo punto di vista la Prima Guerra ha dato occasione agli italiani di conoscersi per la prima volta tra loro). Si ha il tempo di guardare ancora alle ‘piccole cose” che però riempiono il cuore: “gli abeti che sembrano alberi di Natale”, la volpe che passa ogni notte sotto il larice, il quale a sua volta “d’autunno prende il colore come quello dell’oro”, il topino che corricchia sul bordo del letto e viene racchiuso nella mano del soldato. Momento fondamentale quello della distribuzione delle lettere, ancora più importante della distribuzione del rancio. E una lacrima scorre sul viso di chi per l’ennesima volta non sente chiamare il suo nome.

    Nel film quella che Olmi chiama “l’abdicazione alle regole militari”: il Capitano febbricitante (Francesco Formichetti) che si strappa le mostrine del comando (“Bisognerebbe impedire alla mente di pensare”…. “A che serve fare giustizia dopo”?), il Maggiore (Claudio Santamaria) che comprende e non punisce l’insubordinazione, il Tenentino fresco di studi filosofici (Alessandro Sperduti) cui è affidato lì per lì il comando del distaccamento, il Sergente (Domenico Benetti) cui il Tenentino ordina di prendere il comando dato che conosce meglio gli uomini. Nella lettera finale  alla “madre amatissima” (in realtà alla patria) il Tenentino  esprimerà tutta la sua delusione per una realtà molto diversa dagli ideali di cui si era nutrito.

    IL NEMICO VERO NON SONO I SOLDATI AUSTRIACI

    E il nemico? Nel film è una presenza invisibile: s’odono gli apprezzamenti per la ‘fenesta ca lucive’, poi il colpo di moschetto che uccide il soldato volontario, infine il rombo sempre più rabbioso dei mortai che alla fine distruggeranno non solo il larice, ma provocheranno molti morti e gravi danni alla trincea. Nel montaggio una scena finale è stata tagliata, perché – così si è detto - impossibile da girare in modo qualitativamente soddisfacente per ragioni di variabilità meteorologica (e anche per una contraddizione con la presenza canora del nemico nel film). Nella scena il Tenentino usciva con uno straccio bianco dalla trincea ormai semidistrutta e raggiungeva la vicina trincea austriaca non trovando nessuno. Nessun nemico. Una scena fortemente simbolica, a significare che il vero nemico non stava a pochi metri di distanza, ma nelle stanze del potere: anche i soldati austriaci erano stati comandati a combattere una guerra inutile, che del resto si sarebbe trasformata in catastrofe per loro e per l’intera Europa con il dissolvimento dell’Impero austro-ungarico.

    Il film – tratto in parte dal racconto "la paura" di Federico De Roberto e dedicato da Olmi “al mio papà, che quand’ero bambino mi raccontava della guerra dov’era stato soldato”- si svolge in una notte ed evoca fatti realmente accaduti, pur non raccontandoli in modo realistico. Si avvale di una musica di fondo malinconica, soprattutto suonata da tromba e fisarmonica, che ben si accorda con l’intensità delle inquadrature e la drammaticità di ciò che accade. Alla fine l’ordine di ripiegare: nella realtà sono i giorni di Caporetto. Allora l’Attendente (Camillo Grassi) ricorderà che di tutto il dolore patito non resterà più niente, quando la guerra sarà finita e “torneranno i prati” ovvero la natura riprenderà il suo ciclo naturale. Resterà forse solo da perdonare. E non ripetere gli errori fatti, anche se, purtroppo, “la guerra è una brutta bestia che gira il mondo e non si ferma mai” (Toni Lunardi, pastore). 

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