ALTRI LIBRI: INVENZIONE MEDIO ORIENTE E RAPPORTI SANTA SEDE-UNGHERIA – di GIUSEPPE RUSCONI – www.rossoporpora.org – 13 agosto 2017
La nascita del concetto di ‘Medio Oriente’ in un saggio ben documentato e frizzante di Fabio Amodeo e Mario José Cereghino: la rivolta anti-turca coordinata da ‘Lawrence d’Arabia’ e gli interessi petroliferi della Gran Bretagna. I rapporti diplomatici tra Santa Sede e Ungheria (1920-2015) negli atti di due Convegni del 2015, curati da András Fejérdy e pubblicati dal Pontificio Comitato di Scienze Storiche
“LAWRENCE D’ARABIA E L’INVENZIONE DEL MEDIO ORIENTE”, DI FABIO AMODEO E MARIO JOSE’ CEREGHINO
Oggi la locuzione “Medio Oriente” è entrata nell’uso comune con un’accezione precisa. Poco più di un secolo fa essa non esisteva, nel senso che non significava nulla di particolare. Il primo a utilizzarla nel senso odierno fu un ammiraglio e stratega statunitense, Alfred Thayer Mahan, che nel settembre 1902 pubblicò nella rivista londinese National Review un lungo articolo sul Golfo Persico e le relazioni internazionali, in cui prefigurava l’estensione dell’influenza dell’Impero britannico alle “terre di mezzo” tra l’Egitto (de facto già sotto l’influenza inglese) e le Indie orientali.
Da dove abbiamo tratto questa notizia? Da “Lawrence d’Arabia e l’invenzione del Medio Oriente”, un saggio storico (assai agile) scritto da Fabio Amodeo (giornalista, storico e fotografo) e Mario José Cereghino (saggista ed esperto di archivi anglosassoni), pubblicato a maggio scorso da Feltrinelli (Universale Economica/Storia). Fondandosi su una serie di corposi rapporti dell’intelligence britannica, i due autori ricostruiscono con molti dettagli interessanti quanto accadde nelle terre arabe dell’allora Impero ottomano nella Prima Guerra mondiale e negli anni (a Impero dissolto) immediatamente successivi, quando – scrivono – “un pugno di Stati fu inventato da un giorno all’altro in funzione del petrolio” e “nella più totale indifferenza per i diritti e le aspirazioni delle etnie e delle culture che popolavano da secoli quei territori ricchi di storia, tradizioni e culti religiosi”. Conseguentemente “presero a svilupparsi tra gli arabi il desiderio di riscatto, la rabbia e le deviazioni fondamentaliste ben presenti anche al giorno d’oggi”, tanto che “non sorprende che uno scenario simile abbia finito per diventare la più formidabile fonte di conflitti, massacri e guerre dell’età contemporanea”.
L’attenzione degli inglesi verso il Medio Oriente fu determinata soprattutto dalla necessità per l’Impero britannico di controllare un territorio ricco di una materia prima destinata a pesare sempre di più nei giochi economico-politici del mondo: l’oro nero. Per poter raggiungere tale obiettivo (di cui naturalmente era parte integrante il mantenimento delle comunicazioni marittime tra Mediterraneo e Oriente attraverso il Mar rosso e il Canale di Suez) occorreva destabilizzare l’Impero Ottomano, che occupava sia la Mezzaluna fertile che la penisola arabica. Come destabilizzarlo? Promuovendo la rivolta araba contro i turchi.
Gli arabi? Poco conosciuti dagli inglesi, per i quali ad esempio il deserto era un mondo “arduo da interpretare a causa, in primis, delle eterne e sanguinose faide fra clan e tribù, o anche delle diverse interpretazioni della dottrina islamica”. Soprattutto (“lezione che le potenze occidentali del mondo contemporaneo non sembrano avere ancora recepito a dovere”) secondo gli inglesi negli arabi era “scarso, se non addirittura nullo, il significato dei governi e dell’organizzazione sociale così come noi li conosciamo e viviamo giorno per giorno in Occidente”. Per loro “valevano solo la solidarietà tribale e l’appartenenza religiosa”. Per di più – dai documenti britannici consultati dagli autori – gli arabi appaiono generalmente molto scaltri, estrosi, ottimi combattenti ma anche inaffidabili, pronti a vendersi al miglior offerente. Gente difficile da convincere (se non con tanta moneta sonante) a una rivolta contro i turchi, da cui li divide da sempre una forte antipatia: gli arabi asiatici musulmani si sentono “aristocrazia islamica”, uniti dall’idioma comune (che è quello del Corano); i turchi si considerano per contro superiori per grazia del prestigio acquisito dalla dinastia ottomana.
E’ qui che entra in scena l’archeologo gallese Thomas Edward Lawrence, chiamato al Cairo nel 1914 (lì era stato appena creato un apposito Arab Bureau) per mettere a frutto dell’impero britannico le sue doti di conoscenza approfondita del mondo arabo. Da qualche tempo l’Inghilterra aveva preso contatto con Hussein, sceriffo della Mecca, perché si mettesse alla testa di una rivolta anti-turca: Hussein chiede armi, munizioni, molto denaro. E Londra non solo glieli dà, ma risponde positivamente – anche se in termini volutamente vaghi – alla sua richiesta di creare un grande Stato panarabo dopo l’auspicata vittoria. Il fatto è che la stessa Londra più o meno le stesse terre, quando saranno state liberate dai turchi, le ha promesse anche ad altri, come la Francia (che a conti fatti si prenderà Siria e Libano). Agli ebrei invece, con la Dichiarazione Balfour del 1917 l’Inghilterra ha promesso la creazione di un “focolare nazionale” in Palestina. Insomma già si prefigura quella che è poi divenuta la “polveriera” mediorientale.
Torniamo a Lawrence. La missione che gli darà grande fama è quella dell’autunno del 1916, a qualche mese dallo scoppio della rivolta (che langue) nella penisola arabica: l’ufficiale gallese viene inviato da Feisal, figlio di Hussein, a capo dei combattenti. Lo convince della necessità di interrompere prima di tutto le comunicazioni tra Damasco e la penisola sabotando la ferrovia attraverso cui giornalmente giungono rifornimenti in carburante, armi, vettovaglie e denaro (due treni di dieci vagoni). E’ così che gli arabi scelgono la guerriglia, colpendo in gruppi di quattro-sei uomini, che operano tra monti e colline. Lawrence intanto convince anche Abdullah, fratello di Feisal: le imboscate – specie notturne - sono ormai continue: saltano in aria non solo i treni, ma anche serbatoi d’acqua, linee telegrafiche, ponti.
La rivolta divampa e i turchi, pur inquadrati dagli alleati germanici, progressivamente si arrendono (nella penisola arabica) o si ritirano salendo verso nord. Il generale Allenby entra a Gerusalemme, Feisal e Lawrence puntano su Damasco. A Tafas si registra un doppio massacro: quello turco-tedesco della popolazione della città (diverse centinaia di persone, tra cui donne e bambini) e quello arabo-inglese, avendo ordinato Lawrence “di non fare prigionieri” (2500 i militi turchi, tedeschi e austriaci trucidati). Scriverà poi Lawrence: “In un impeto di follia, figlio dell’orrore di Tafas, ammazzavamo e continuavamo ad ammazzare, facendo saltare la testa anche ai morti e agli animali”.
Finisce la guerra, l’Impero ottomano si è dissolto e in Medio Oriente saranno costituiti artificiosamente nuovi Stati, ‘protetti’ da Inghilterra o Francia. Nel saggio di Amodeo-Cereghino si analizzano puntigliosamente i patti segreti e le conferenze di pace che portarono alla nuova situazione. E si accompagna anche il declino di Lawrence negli anni post-bellici. Fino alla morte nel 1935, per un incidente automobilistico mai del tutto chiarito nella sua dinamica.
Come si sarà accorto chi ha avuto la pazienza di seguirci fin qui “Lawrence d’Arabia e l’invenzione del Medio Oriente” è un testo ben documentato e frizzante, che permette di valutare sotto una luce insolita – ma non per questo meno vera – l’origine e gli sviluppi del concetto di “Medio Oriente”. E forse potrà integrare o addirittura correggere qualcuna delle idee che sul tema ognuno di noi coltiva da sempre.
RAPPORTI DIPLOMATICI TRA SANTA SEDE E UNGHERIA (1920-2015), A CURA DI ANDRAS FEJERDY
Nel 2015 cadeva il venticinquesimo anniversario della ripresa delle relazioni diplomatiche tra Santa Sede e Ungheria, dopo la rottura del 1945 imposta dall’occupante sovietico. Due i convegni - uno a Budapest, l’altro a Roma - in cui si è voluto riflettere sulla storia di tali relazioni nell’insieme del XX secolo e in questo primo scorcio di XXI. Un‘ampia selezione degli interventi registrati in quelle occasioni sia sulle rive del Danubio che su quelle del Tevere, curata dallo studioso András Fejérdy sotto il titolo “Rapporti diplomatici tra la Santa Sede e l’Ungheria 1920-2015 , è ormai a disposizione nella collana “Atti e documenti” del Pontificio Comitato di Scienze Storiche, pubblicata per i tipi della Libreria editrice vaticana. Del volume, che raccoglie una ventina di contributi, si è parlato recentemente presso l’Università gregoriana in una presentazione moderata da padre Bernard Ardura – presidente del Pontificio Comitato – con il saluto del decano della Facoltà di storia padre Marek Inglot e gli interventi degli storici Roberto Regoli, Igor Salmić e András Fejérdy e di Eduard Habsburg-Lothringen, ambasciatore di Ungheria presso la Santa Sede: “Il volume – ha evidenziato il diplomatico – non è solo celebrativo, ma ha un fondamento scientifico profondo che apre porte e fa desiderare di sapere di più”.
E’ facile intuire che l’argomento è particolarmente complesso, riflettendo nei suoi sviluppi contrastanti il succedersi degli eventi storici in quella parte particolare di Mitteleuropa, che da oltre un millennio è in contatto stretto con la Roma dei Pontefici. Basti riandare, come ha fatto all’inizio del suo contributo il cardinale Peter Erdö, all’invio da parte di papa Silvestro II della corona al re Stefano di Ungheria (poi canonizzato). Oppure alla lotta con i turchi nel XV secolo (Giovanni Hunyadi, san Giovanni da Capestrano), nel XVI e nel XVII secolo con la liberazione finale di Buda e del Paese intero (grazie alla spinta di Innocenzo XI). Dopo la dissoluzione dell’Impero austro-ungarico alla fine della Prima Guerra Mondiale, l’Ungheria divenne uno Stato indipendente e in quanto tale allacciò relazioni diplomatiche in forma nuova con la Santa Sede. Scivolata nell’orbita nazista e poi occupata direttamente nel 1944, l’Ungheria conobbe tempi bui, in cui rifulsero l’attività del nunzio apostolico Angelo Rotta e del suo collaboratore monsignor Gennaro Verolino, che – al centro di una vera e propria rete diplomatica che comprendeva anche diplomatici svedesi, svizzeri e spagnoli (in tale ambito tutti ricorderanno una figura mirabile e imprevedibile come quella dell’italiano Giorgio Perlasca) – salvarono decine di migliaia di ebrei dalla deportazione e dalla probabile morte. Dopo i nazisti, i comunisti: e per la Chiesa furono lunghi decenni di persecuzione, interrotti per pochi giorni dalla Rivoluzione dell’ottobre 1956 repressa dai carri armati sovietici che invasero il Paese il 4 novembre successivo. Simbolo di quella Chiesa fu il cardinale (oggi servo di Dio) József Mindszenty, rifugiatosi nel 1956 nell’ambasciata statunitense di Budapest e restatovi per quindici anni fino a quando nel 1971 lasciò la sede diplomatica raggiungendo Roma. Ostile alla Ostpolitik vaticana (incarnata dal card. Casaroli), morì in esilio a Vienna nel 1975, dopo che due anni prima era stato sollevato dall’incarico di arcivescovo di Esztergom, primate di Ungheria.
Va detto subito che alla vicenda del cardinale Mindszenty nel volume si dà poco spazio rispetto alle attese, ma va anche rilevato che se ne è parlato ampiamente in un Convegno svoltosi a Venezia nell’ottobre 2016 (“Chiesa del silenzio e diplomazia pontificia”), dei cui Atti si attende la pubblicazione sempre nella stessa collana del Pontificio Comitato di Scienze Storiche.
Il volume è suddiviso in tre parti: Cristianesimo, Stato, Diplomazia; Relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e l’Ungheria (1920-1945); Ristabilimento e ulteriore sviluppo dei rapporti diplomatici (1990-2015).
PRIMA PARTE: LA ‘FOLLA IMMENSA’ PER MINDSZENTY – L’UNGHERIA CRISTIANA DEL GOVERNO ORBAN
Qualche assaggio. La prima parte si apre con il contributo del nunzio apostolico Angelo Acerbi, nominato in Ungheria nel 1990, che ricorda i giorni della ritrovata libertà, la “folla immensa” che il 4 maggio 1991 fece ala a Esztergom all’arrivo delle spoglie del cardinal Mindszenty, le “manifestazioni impressionanti” durante la visita di cinque giorni nel 1991 di Giovanni Paolo II. Il segretario per i Rapporti con gli Stati, arcivescovo Paul Richard Gallagher si sofferma poi sulla figura del cardinale Agostino Casaroli, preoccupato sempre attraverso lo sviluppo della Ostpolitik della “difesa della libertà della Chiesa nell’adempimento della missione affidatale da Cristo”; e questo nonostante “le critiche e le contestazioni“ di quanti “erano contrari a qualsiasi intesa con i comunisti”.
Nella prima parte anche gli interventi di due ministri del governo Orbán. Zoltán Balog ha parlato del “ruolo dell’educazione cristiana nella società ungherese”, ricordando che “la prima scuola in Ungheria fu una scuola religiosa, fondata dai monaci benedettini appena arrivati a Pannonhalma”. Ciò “significa allora come oggi che apparteniamo all’universale cultura europea, a una cultura cristiana”. Peter Szijjártó si è invece soffermato sui “fondamenti cristiani della politica estera ungherese”, evidenziando che “il nostro sistema di valori, il nostro mondo di valori – potremmo dire: la nostra civiltà – sono vittime di un’aggressione brutale e spietata”. Perciò “il Governo ungherese non nasconde la testa sotto la sabbia, nella sua politica estera chiama le cose con il loro nome anche se, così facendo, attira una serie di attacchi su di sé”. La politica estera ungherese è “cristiana” e come tali ha alcuni capisaldi tra i quali la responsabilità “per le comunità cristiane nel mondo, tanto più se vengono perseguitate” e l’obiettivo della “pace e stabilità del Medio Oriente”, dunque anche la lotta contro il fondamentalismo islamico. Si può rilevare qui, attualizzando, che Viktor Orbán e il patriarca caldeo Louis Raphael Sako hanno firmato a Budapest il 29 maggio scorso un accordo sul finanziamento per la ricostruzione della città di Telskuf (Kurdistan iracheno), distrutta dagli estremisti islamici. Oppure ancora si può osservare che il governo ungherese ha approvato tra l’altro un programma di aiuto scolastico (tramite lo Stipendium Hungaricum ) per i giovani della diocesi nigeriana di Maiduguri, zona di persecuzione anticristiana.
SECONDA PARTE: LE RELAZIONI TRA IL 1920 E IL 1945 – IL RUOLO DELLA NUNZIATURA APOSTOLICA SOTTO NAZISMO
La seconda parte è la più corposa e analizza in profondità i documenti ‘ungheresi’ tra il 1919 e il 1938 custoditi nell’archivio storico della sezione per i rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato, come rileva in un contributo introduttivo il suo direttore Johan Ickx. De “La Santa Sede e i cambiamenti politici in Ungheria dopo la Grande Guerra” si occupa in un ampio intervento Tamás Tóth, rettore del Pontificio Collegio ecclesiastico ungherese di Roma. Sul vero e proprio, tormentato, allacciamento di relazioni diplomatiche nel 1920 riferisce Mark Aurél Erszegi, primo consigliere dell’ambasciata presso la Santa Sede, annotando tra l’altro che “la Chiesa in Ungheria versava anch’essa nella stessa, grave situazione in cui si trovava lo Stato alla fine della guerra”. Infatti “l’occupazione dei territori ungheresi l’aveva privata non soltanto di una parte dei suoi fedeli, ma anche di una porzione rilevante dei suoi vasti possedimenti, necessari al sostentamento della estesa rete di istituzioni. Quasi tutte le diocesi risultarono troncate dai nuovi confini, per cui la loro amministrazione era divenuta difficoltosa, se non addirittura impossibile”. De “La Santa Sede e la definizione del nuovo testo del giuramento di fedeltà allo Stato nel 1924” tratta András Fejérdy: in sintesi il ricercatore segue dettagliatamente lo sviluppo della questione del giuramento di fedeltà vescovile, “elemento strettamente correlato al controllo statale dei beni ecclesiastici”. Molto interessante il confronto che Balázs Csíky propone – a proposito di nomine vescovili negli Anni Trenta/Quaranta – tra i candidati proposti dal cardinal Serédi, quelli del Governo e i prescelti dal Papa: molti corrispondono, altri non del tutto. Tra gli altri contributi quello sui rapporti tra Santa sede e la Chiesa greco-cattolica ungherese (Tamás Véghseö), quello del benedettino Adam Somorjai sul ruolo dei nunzi apostolici Orsenigo e Rotta nella visita apostolica degli istituti religiosi in Ungheria (1927-35) e quello dello storico Matteo Luigi Napolitano, che riflette ampiamente sul tema importante e delicato della “nunziatura apostolica a Budapest tra nazismo e comunismo”: “Dopo la retata del 20 ottobre 1944 (NdR: quando il criminale nazista Adolf Eichmann iniziò la seconda fase della deportazione degli ebrei ungheresi), visto vano ogni tentativo di dialogo con il governo ungherese, la nunziatura apostolica si attivò per contatti costanti e diretti con le altre rappresentanze diplomatiche dei Paesi neutri”. Tanto che “furono adottati anche ingegnosi espedienti”, ad esempio l’istituzione di “numerose case-rifugio ‘diplomatiche’, affittate a nome del Vaticano”.
Nella terza parte si affrontano temi che interessano le due diplomazie in tempi più recenti. Tamás Tóth ricostruisce in sintesi quanto successe dall’espulsione del nunzio Rotta su imposizione sovietica il 4 aprile 1945 fino alla firma dell’accordo di ristabilimento del 9 febbraio 1990. Tra gli altri contributi quello del professor Gábor Erdödy che analizza “la politica religiosa in Ungheria con l’avvento della democrazia”. In sintesi: per chi è interessato a comprendere meglio le dinamiche che muovono anche oggi la politica ungherese, il volume curato da András Fejérdy è un utile strumento di conoscenza. Ed è consigliato vivamente anche agli sprovvedutissimi catto-fluidi facili alle sentenze di condanna verso la Budapest odierna.