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    INTERVISTA AL CARD. TURKSON

    INTERVISTA AL CARDINALE TURKSON - 'IL CONSULENTE RE ONLINE' DI LUGLIO 2010

     

    Dal 24 ottobre del 2009 (al termine del Sinodo di cui era relatore generale) è presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, successore del cardinale Renato Raffaele Martino: il non ancora sessantaduenne Peter Kodwo Appiah Turkson è il primo presidente africano dell’importante dicastero.

     

    Studi alla Gregoriana (licenza e dottorato presso l’Istituto biblico , arcivescovo di Cape Coast (nominato nell’ottobre del 1992, consacrato nel marzo 1993), il primo cardinale originario del Ghana ha ricevuto la porpora nel 2003. Nella sede di San Calisto ci ha rilasciato cortesemente un’intervista che è incominciata doverosamente con la non irrilevante presenza del Ghana ai mondiali di calcio sudafricani. Da lì s’è preso lo spunto per parlare più in generale di Africa, del recente Sinodo riguardante il continente, dei primi mesi da presidente del Pontificio Consiglio, delle priorità pastorali, dei rapporti con l’islam e, per finire, della necessità che la Chiesa si scuota anche nella pastorale quotidiana  per affrontare meglio i nostri tempi dominati dalla tecnologia. E riguardo alla celebrazione della messa…

    Eminenza, Lei che è ghaneano che cosa ha provato la sera del 2 luglio quando, al 120mo e ultimo minuto del quarto di finale Uruguay-Ghana Asamoah Gyan ha spedito sulla traversa il rigore che avrebbe dato al Suo Paese la gioia immensa e inedita della semifinale mondiale? Poi, come sa, lo stesso Ghana, che era restato l’unica squadra africana in gara, ha perso nella ‘lotteria’ dei rigori…

    Non ho potuto vedere la partita perché la RAI non l’ha trasmessa in televisione…c’era chi la seguiva attraverso il computer e mi informava… Certamente tutti abbiamo sperato che il Ghana raggiungesse le semifinali mondiali o magari la finale … ma, ormai, nel calcio c’è chi vince e c’è chi perde…

    Secondo Lei questi mondiali di calcio hanno arrecato benefici all’Africa, al continente africano?

    Ci sono stati lati positivi e lati negativi. Certamente i mondiali di calcio hanno fatto conoscere un po’ di più l’Africa alla gente. Spero che ora l’Africa non sia più considerata come una sorta di villaggio omogeneo, ma un territorio molto variegato. La gente ha visto che i mondiali sono stati organizzati in Sudafrica, uno dei tanti Paesi del continente. Quindi, se la gente, grazie ai mondiali, ha incominciato a imparare che ci sono in Africa anche il Ghana, il Camerun e tanti Stati diversi e dunque l’Africa non va pensata come un piccolo villaggio, beh… renderò gloria a Dio per questo solo fatto!  Pensi un po’ a quel che emerge invece troppo spesso: se qualcosa succede nel Sudan, per tanti accade nell’intera Africa… se c’è fame in un posto, è tutta l’Africa che ha fame… se si combatte in qualche angolo di Congo, si combatte in tutto il continente! Chissà se ora la gente incomincerà a parlare di Africa in modo diverso, cosciente delle diversità culturali, sociali, economiche lì esistenti…

    Lei ha parlato anche di “lati negativi”. A che cosa si riferisce?

    Il Sudafrica è ora un po’ più aperto, grazie anche ai tanti turisti/tifosi che hanno raggiunto quel Paese e vi hanno speso parecchi soldi. Questo è stato positivo. Tuttavia c’è un aspetto negativo in tutto ciò. Rilevava il mio confratello arcivescovo di Durban, cardinale Napier, che per i mondiali sono stati importati in Sudafrica milioni di preservativi. Che c’entravano con i mondiali? Forse che gli ospiti erano venuti per fare sesso? Di questo aspetto i giornalisti in genere non hanno parlato, ma non si può negare che ci sono sempre in queste grandi manifestazioni coloro che ne approfittano per vendere prodotti come i preservativi, incoraggiando comportamenti di promiscuità sessuale.

    Un altro avvenimento recente ha avuto come protagonista il Suo continente d’origine: nell’autunno scorso in Vaticano si è svolto il Sinodo per l’Africa, di cui Lei era relatore generale. Nelle tre settimane dei lavori nell’Aula Nervi sono risuonate tante denunce – anche di Suoi confratelli - di incapacità, corruzione, viltà rivolte a molti politici africani, oltre che di sfruttamento e ricatto da parte dell’economia occidentale. Sono passati pochi mesi dalla conclusione del Sinodo… si tocca già con mano qualche frutto positivo dell’assemblea?

    E’ troppo presto, se si pensa che in diverse Chiese locali africane si stanno ancora cercando di applicare le conclusioni del primo Sinodo del 1994. Il primo Sinodo non è archiviato, è sempre in atto per quanto riguarda la concretizzazione dei suoi obiettivi. Si deve capire che un Sinodo richiama un continuo movimento, non può mai essere messo in un cassetto e lasciato lì dentro a coprirsi di polvere. Fin qui del secondo Sinodo del 2009 sono ufficialmente a disposizione il testo del Messaggio e le proposizioni; restiamo in attesa dell’esortazione apostolica che seguirà. Certo in alcuni Paesi dell’Africa occidentale si sono già organizzati incontri con i politici per discutere i contenuti del Messaggio. I politici devono capire che un buon governo conduce a una buona economia; una buona economia a uno sviluppo positivo…

    Alcuni governi, più o meno bene intenzionati, si lasciano però ricattare dall’esterno: se tu ci lasci campo libero nell’ambito del mercato o in genere nell’economia, noi ti possiamo aiutare…

     

    Sì, questo comportamento esiste. Non solo in Africa, anche in Europa con il fenomeno delle tangenti ai politici. I governi africani dovrebbero tenere di più la schiena diritta, resistere a tali offerte in nome del bene del Paese. E’ vero che non sempre è facile. Le pressioni sono tante, anche da parte di organismi internazionali che pongono condizioni inaccettabili. Non possiamo aderire a un’idea di libero mercato assoluto, dobbiamo invece fare in modo che nei nostri Paesi si produca, cresca la produttività di tutti. Guardi un po’ che cosa succede con il cacao: lo esportiamo come materia prima in Europa e ci guadagniamo poco, perché la ricchezza viene dall’elaborazione cui il cacao è sottoposto nei Paesi occidentali. Certamente c’è chi vorrebbe lasciare le cose come stanno, preferendo un’Africa prona ai suoi ricatti: poi magari è la stessa persona va ai convegni internazionali denunciando la povertà del continente! Che ipocrisia! Ma se è quello che vogliono, è il loro grande desiderio!

    Eminenza, qui a Roma ha nostalgia della sua attività pastorale quotidiana a Cape Coast?

    Il lavoro pastorale lo svolgo anche a Roma. Qui sono un pastore che fa un po’ di amministrazione. Con me lavorano in tanti e con loro esercito la mia pastorale, perché alla base di ogni iniziativa pastorale c’è il rispetto profondo della persona. Ovunque si intraprenda un percorso, ci sono sempre uomini cui mostrare la bellezza del messaggio cristiano, la prospettiva della salvezza.

    L’esperienza di questi Suoi primi mesi da presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace è corrisposta alle sue aspettative?

    Non sono venuto con aspettative particolari. Sono stato scelto, ho obbedito. Quando ci creano grandi aspettative, la delusione è lì dietro l’angolo. E’ chiaro che non si giunge qui a digiuno di quel che ci aspetta; anch’io ero già consultore di questo Dicastero e dunque ero al corrente più o meno della sua attività. Non mi sono però creato modelli mentali da concretizzare. Io sono stato chiamato da una persona, nella cui visione delle cose io cerco di inserirmi.

    Allora quali sono le Sue priorità a medio termine?

    Sono quelle del Santo Padre, della Chiesa che lui dirige. Penso che nell’enciclica di Benedetto XVI Caritas in Veritate ci sia già tutto o quasi. Noi dobbiamo farci promotori, annunziatori, divulgatori dei contenuti dell’enciclica, che pretendono l’uomo al centro dello sviluppo dell’umanità. Nell’enciclica ci sono l’economia e la sua crisi, lo sviluppo demografico, la tecnologia, la bioetica, la famiglia: l’impianto del nostro annuncio è già saldo e ricco di fondamenti.

    In questi ultimi anni, Eminenza, anche l’Africa ha visto crescere l’aggressività dell’Islam. In alcuni Paesi non mancano scontri sanguinosi. Lei è preoccupato per tale situazione?

     

    Tutto il mondo dev’essere preoccupato. Il radicalismo cresce dappertutto. Anche in Italia dovete lottare per il crocifisso a scuola, che alcuni vogliono togliere. In tanti Paesi aumentano le moschee e in Svizzera la reazione si è espressa con il ‘no’ all’edificazione di nuovi minareti. Ciò che succede in Africa è parte di un cambiamento mondiale. In Africa abbiamo sempre convissuto con i musulmani: anzi l’islam è giunto prima del cristianesimo in alcune parti del nostro continente. Abbiamo convissuto pacificamente. Guardi la mia famiglia: madre metodista, padre cattolico, uno zio musulmano… eppure siamo sempre andati d’accordo! In questi ultimi anni però è cresciuto il fondamentalismo e la convivenza pacifica è vista come un cedimento, un tradimento della ‘purezza’ della religione. Perciò l’islam radicale vuole ‘purificare’ la religione rendendola meno tollerante. Così accade anche per l’induismo radicale in India o per certi gruppi evangelici radicali in Africa.  

    Come si prospetta il futuro del cattolicesimo in Africa?

    A nord troviamo la ‘Chiesa degli stranieri’; intorno all’Equatore la Chiesa cresce; a sud la Chiesa è molto debole, con poche vocazioni. La Chiesa deve confrontarsi con l’islam, cercando di invitarlo a tenere a bada i suoi fondamentalisti. Le difficoltà non mancano, ma le sfide vanno affrontate. La Chiesa deve rigenerarsi, deve comprendere che il mondo cambia, che tutto è in movimento, che le nuove tecnologie vanno capite e utilizzate nel miglior modo possibile. La Chiesa non può accontentarsi. La popolazione è ormai abituata alle nuove tecnologie e alla messa spesso si annoia…

    Eminenza, par di capire che Lei proponga una riforma della messa…

    E’ chiaro che la sostanza deve restare. Però durante la messa si devono sviluppare le tecniche per attirare l’attenzione dei fedeli. Per esempio durante l’omelia… io ho sempre incoraggiato i miei sacerdoti a fare delle omelie non moralistiche, ma su testi biblici…I fedeli non devono sentire la nostra opinione, ma quella di Dio che parla attraverso le letture bibliche. Bisogna incoraggiare i fedeli a venire a messa con la Bibbia in mano, così che il celebrante possa interagire con loro ed essi possano continuare a leggere i testi e a riflettere a casa su quanto letto.

    Quali altre tecniche Lei auspica per vivacizzare la messa?

    C’è una cosa che non capisco: la stessa gente che a messa si annoia, poi va allo stadio dove resta per ore a urlare. In chiesa spesso invece non può aprire la bocca: si deve capire che, se le cose restano così, poi la gente la bocca la apre altrove. Bisogna spingere i fedeli ad aprire la bocca anche in chiesa, introducendo iniziative creative, che scuotano la gente. Bisogna farlo, altrimenti la noia crescerà, la gente andrà sempre meno in chiesa e le conseguenze per la Chiesa non saranno positive.  

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