UNGHERIA 1956: RICORDI E VALUTAZIONI DEL CARD. PETER ERDOE - di GIUSEPPE RUSCONI - www.rossoporpora.org - 24 ottobre 2016
A sessant’anni dalla Rivoluzione ungherese del 1956 ripubblichiamo l’ampia intervista – per il cinquantesimo della stessa – fatta al cardinale Peter Erdoe e apparsa su “Il Consulente RE” 10/06. Scriveva il poeta nazionale Sandor Petöfi, caduto durante la Guerra d’Indipendenza del 1848-49: “Il triste vento d’autunno parla con gli alberi,/parla sommesso, non vuole che noi si senta…”. Noi vogliamo sentire, ancora una volta.
Il cardinale Peter Erdoe, arcivescovo di Esztergom-Budapest, è stato eletto venerdì 6 ottobre 2006 nuovo presidente del Consiglio delle Conferenze episcopali europeee (Ccee), succedendo al vescovo di Coira monsignor Amédée Grab. E’ stato eletto a quasi cinquant’anni dalla rivolta d’Ungheria, è stato eletto in Russia (a quel tempo Unione sovietica), è stato eletto a san Pietroburgo (a quel tempo Leningrado). Miracoli della storia. Giunto a Roma per aprire i festeggiamenti per l’ottavo centenario della nascita di santa Elisabetta d’Ungheria, il cinquantaquattrenne porporato (il più giovane tra tutti) ha accettato volentieri di rispondere ad alcune domande non sulla sua nuova importante funzione, ma sui tragici avvenimenti che sconvolsero la sua patria nell’ottobre-novembre del 1956. Aveva solo quattro anni il cardinale a quel tempo, noi pochi di più e ci resterà per sempre impressa nella mente e nel cuore la sfilata (tra una grande folla commossa) dei profughi ungheresi, pastrani neri sulla neve bianca di Bellinzona nel febbraio del 1957.
Al cardinale Erdoe abbiamo chiesto di ricostruire quei giorni in cui – per citare Benedetto XVI (7 ottobre 2006)– “il coraggioso popolo di Budapest dovette confrontarsi con il proprio desiderio di libertà, a fronte di un regime che perseguiva fini difformi dai valori della Nazione ungherese”. Aggiunge papa Ratzinger che “è ancora vivo nella memoria il ricordo dei tragici eventi che provocarono, nel giro di pochi giorni, migliaia di vittime e di feriti, destando nel mondo grave turbamento”. Il Primate d’Ungheria ha rievocato le proprie sensazioni di bambino, ha raccontato della sua casa sventrata dai carri armati sovietici, ha parlato del ruolo della Chiesa (ricordando il cardinale Jozsef Mindszenty), ha dato una valutazione dei protagonisti politici di quella Rivoluzione e del clima che allora si respirava nel popolo combattente. Scriveva il poeta nazionale Sandor Petoefi, caduto durante la Guerra d’Indipendenza del 1848-49: “Il triste vento d’autunno parla con gli alberi,/parla sommesso, non vuole che noi si senta…”. Noi vogliamo sentire, ancora una volta.
Eminenza, Lei è nato solo poco più di quattro anni prima della rivolta di Budapest. Conserva qualche ricordo preciso di quanto accaduto? Quando e come seppe dell’insurrezione?
Ho dei ricordi molto personali, poiché i carri armati dell’Armata Rossa hanno distrutto la nostra casa che era nel centro di Budapest, vicino a una caserma degli insorti. Davanti a casa nostra si combatteva accanitamente.
Lei era piccolo… Che cosa pensò allora di quel che succedeva?
Mi ricordo di aver chiesto a mia mamma perchè si sparasse. Lei mi rispose: “Perché c’è la guerra”. E io: “Chi spara contro di noi?” La mamma: “I russi”. E io: “Mamma, chi è con noi?”. E lei, piangendo: “Nessuno”. Io naturalmente non capivo allora le sfumature politiche.
Con la casa distrutta, dove andaste?
Dovevamo trasferirci, eravamo senzatetto e senza niente, la casa era anche bruciata… perciò ci trasferimmo in un alloggio per operai di un’impresa in cui aveva lavorato anche mio papà. Però per raggiungere il nuovo alloggio dovemmo attendere che ci fosse una tregua nei combattimenti. Venne, scendemmo in strada, l’attraversammo. La strada era piena di fango, disselciata dagli insorti. Nel fango vidi qualcosa di strano che emergeva… volevo prenderlo… ma mia mamma con uno strattone me lo impedì. Quel qualcosa era qualcuno, un soldato russo travolto da un carro armato. Io e i miei fratelli eravamo bambini e non ci siamo resi conto della tragedia di quei giorni: per noi era una situazione strana e interessante.
Ricorda qualche altro episodio?
Per alcuni giorni non si poteva comprare il pane. Allora eravamo riforniti di caramelle e cioccolatini che qualche bravo vicino di casa aveva asportato da un negozio centrato da qualche proiettile. Prima di Natale noi tre fratelli senza casa siamo stati mandati da famiglie contadine dei dintorni di Budapest, nell’ambito di un’azione promossa dalle parrocchie. Per alcuni mesi siamo restati lì.
Com’è stato il Natale del 1956?
Triste, ma anche interessante. Ho potuto conoscere nei dettagli la vita contadina… la mazza… poi il taglio del maiale… tante cose per me nuove. E’ vero che ogni giorno piangevamo per la mancanza dei genitori, che potevano venire solo una volta per settimana. Poi la nostra casa è stata restaurata e siamo tornati a vivere a Budapest.
Della rivolta d’Ungheria… a proposito come la chiama esattamente Lei?
Oggi ufficialmente diciamo “Rivoluzione e Guerra d’Indipendenza”…. “Insurrezione” non basta, almeno in Ungheria…
Ecco… se ne parlava (e come?) quando Lei frequentava le scuole elementari?
Dentro l’aula o non se ne parlava o (più tardi) se ne parlava male, definendola “controrivoluzione”, e si esaltava l’ “aiuto fraterno” dei “fratelli sovietici”. Però le pietre parlavano. Nella facciata della prima scuola elementare, nella via Prater, vicinissima al Corvin (cioè alla sede principale della Rivoluzione), c’erano ancora - poi riparati a malapena - buchi di due metri. Dunque, anche se i maestri tacevano, ci pensavano le pietre a gridare.
LA RASSEGNAZIONE DIFFUSA DOPO LA REPRESSIONE DELLA RIVOLUZIONE DEL 1956
Quale influenza ebbero gli avvenimenti dell’ ottobre-novembre del 1956 sugli ungheresi?
Direi che negli ungheresi si diffuse una rassegnazione generalizzata, che per certi versi dura ancora oggi. La Rivoluzione del 1956 costituì un grande insegnamento per gli ungheresi rimasti in patria; almeno 200mila come è noto avevano lasciato il Paese. Quelli restati in Ungheria dovevano, se non teoricamente, almeno de facto accettare gli sviluppi della situazione, il che comportava una convivenza con la realtà imposta dall’invasione. Molti non volevano più pensare al futuro, non si sentivano più responsabili per quanto accadeva nel Paese. Dicevano di aver provato in tutti i modi a modificare la situazione, ma ciò si era rivelato impossibile: l’Occidente non voleva intervenire, i russi erano troppo forti. Ognuno ha cercato allora di concentrarsi sulla sua vita privata, di usufruire di un modesto benessere materiale, quel poco concesso dal cosiddetto comunismo-gulasch. Molti hanno sacrificato il futuro per un poco di benessere. Pensi che, qualche giorno prima della Rivoluzione, l’Ungheria aveva liberalizzato – primo Paese del blocco comunista – l’aborto: negli ultimi cinquant’anni, secondo le cifre ufficiali, sono stati fatti sei milioni di aborti per una popolazione di dieci milioni di abitanti. Oltre a tutte le altre considerazioni che si possono fare su tale tragedia, ciò significa che demograficamente stiamo peggio degli altri Paesi europei, perché la nostra piramide è squilibrata e perdiamo ogni anno cinquantamila abitanti.
Lei ha parlato del mancato intervento dell’Occidente: è stato percepito come un tradimento?
Tradimento è parola esagerata. Certo emittenti come “Radio Europa libera” possono aver incoraggiato gli insorti alla resistenza armata, promettendo interventi occidentali de facto inesistenti, considerato come gli Stati Uniti già avessero detto ai russi che non avrebbero inviato truppe. Non dobbiamo dimenticare gli accordi di Yalta del 1943 sulla spartizione dell’Europa! Noi come bambini sapevamo soltanto che la gente non sperava più nulla dall’Occidente, date anche le esperienze negative fatte con diverse Potenze nella prima metà del Novecento, durante le due Guerre mondiali. Gli ungheresi erano già amareggiati da tempo per l’atteggiamento occidentale, per cui l’amarezza aumentò ancora, ma razionalmente quasi nessuno si attendeva più un intervento militare.
Eminenza, a cinquant’anni di distanza come giudica l’intervento dell’Armata Rossa?
Probabilmente la Russia voleva evitare che la zona neutrale si estendesse dall’Austria all’Ungheria. L’Austria aveva raggiunto l’indipendenza nel 1955 e i russi ne avevano evacuato la parte orientale. Si poteva pensare che all’Austria sarebbe seguita l’Ungheria, ma questo i russi non sarebbero riusciti a tollerarlo.
SOLIDARIETA’ DEGLI UNGHERESI ALLA POLONIA
La manifestazione del 23 ottobre che diede il via alla rivolta fu organizzata dagli studenti per solidarietà con i polacchi, dopo i fatti di Poznan, i provvedimenti di parziale liberalizzazione e l’elezione a nuovo primo segretario del partito comunista di Wladislaw Gomulka, che aveva esplicitamente ammonito i russi a non intervenire, poiché in tal caso l’esercito polacco avrebbe reagito. Eminenza, era sorprendente la solidarietà ungherese ai polacchi?
No, se si guarda alla storia. La Rivoluzione del 1956 è incominciata attorno al monumento a Jozef Bem, un generale polacco che combattè con gli ungheresi contro gli austriaci nella guerra d’indipendenza del 1848-1849. Dopo la sconfitta, insieme con tanti altri ungheresi, Bem si rifugiò in Turchia, passò alla religione islamico e rivestì una carica di rilievo per l’Impero Ottomano in Siria… La solidarietà dei polacchi verso gli ungheresi per gli avvenimenti del 1956 fu commovente: furono inviati sangue, vestiti… anche la mia famiglia fece la fila per i vestiti… faceva freddo e non avevamo più la casa!... Mio padre ad esempio portò per dieci anni lo stesso cappotto che aveva ricevuto dai polacchi: lo fece non solo per necessità, ma anche per simpatia verso la Polonia.
LA CHIESA UNGHERESE E LA RIVOLUZIONE DEL 1956
Come si comportò la Chiesa ungherese in quei momenti drammatici?
Sin dal 1948 la Chiesa ungherese era stata perseguitata dal regime comunista, distrutta nelle sue strutture istituzionali: chiuse quasi tutte le scuole, soppressi gli Ordini religiosi, controllate strettamente le diocesi, confiscati i beni, incamerati i piccoli benefici parrocchiali, arrestati moltissimi sacerdoti. Dunque la Chiesa non era in grado di organizzare la Rivoluzione e neppure rientrava questo nei suoi compiti; però è vero che il regime comunista considerava i cattolici come sostanzialmente ostili. La Chiesa, pur non avendo partecipato come tale alla Rivoluzione, incominciò quasi subito a sviluppare un’attività umanitaria, intesa ad aiutare i feriti. Ha in certi casi dato anche un aiuto per ciclostilare e distribuire volantini, tanto è vero che molti furono i sacerdoti e i seminaristi cattolici arrestati proprio per azioni di tal genere. La maggioranza dei vescovi non fece sentire pubblicamente la propria voce nei giorni della Rivoluzione, salvo quello di Pecs, che stilò un manifesto sui diritti di libertà. Ma lui aveva già più di ottant’anni.
JOZSEF MINDSZENTY: GRANDE PERSONALITA’, FEDELE TESTIMONE DEL CRISTIANESIMO
Però il cardinale Jozsef Mindszenty, liberato il 30 ottobre, intervenne con un radiomessaggio il 3 novembre, dopo alcune parole dette il primo…
Il cardinale fu liberato sei giorni dopo l’inizio della Rivoluzione. Aveva ricevuto offerte per uscire di prigione, ma, essendo incarcerato da otto anni quasi sempre in isolamento (poteva leggere i giornali e sentire la radio solo dall’estate del 1956), non sapeva se quelle offerte non nascondessero un tranello… magari sarebbe stato portato in Russia. Non accettò un’amnistia, poiché – considerandosi innocente delle accuse per cui era stato condannato all’ergastolo - voleva la riabilitazione. Poi i soldati dell’esercito ungherese lo convinsero e lo accompagnarono a Budapest; nella sua prima dichiarazione però il cardinale aveva chiesto tempo per poter conoscere la situazione effettiva. Non era al corrente, doveva orientarsi. Il suo discorso del 3 novembre alla Radio è stato equilibrato e il governo di Imre Nagy l’ha ringraziato. Dopo che si era rifugiato il 4 novembre presso l’Ambasciata statunitense, rispose alla domanda di alcuni giornalisti su quale governo considerasse legittimo tra quelli di Nagy e quello di Kadar: quello di Nagy, disse (pur se anche Nagy era comunista). Non pensò mai di dirigere politicamente il Paese.
Come valuta, Eminenza, la figura del cardinale Mindszenty, di cui Lei è un successore?
E’ molto difficile rispondere per me. Il cardinale è stato mio vescovo, ma era già in carcere da quattro anni quando sono nato. Entrato io in Seminario, era invece rifugiato presso l’ambasciata degli Stati Uniti. Non ho potuto mai vederlo. Poi nel 1971 ci giunse la notizia che, dopo lunghe e complesse trattative tra Ungheria e Vaticano, aveva lasciato a malincuore l’ambasciata per espatriare. Alcuni hanno detto che era troppo conservatore, poco elastico. Ma la mia impressione è che per lui non manchi la fama di santità: molti erano e sono convinti che il cardinale è stato un santo. Questa fama perdura. E’ stato il cattolico ungherese più conosciuto del Novecento: non solo fu una grande personalità, dotata di grande coraggio, che suscitò ammirazione in patria e all’estero, ma anche un testimone fedele del cristianesimo.
IMRE NAGY E PAL MALETER
Veniamo ad altri protagonisti: Imre Nagy…
C’è un fatto eroico, che merita tutto il rispetto possibile: Imre Nagy è stato condannato a morte e ucciso per essere rimasto fedele ai principi espressi negli ultimi giorni della sua attività politica. Prima di quegli ultimi giorni era membro di rilievo di quel gruppo di comunisti fedelissimi, che vennero da Mosca con l’Armata Rossa alla fine della Seconda Guerra mondiale: a differenza di Janos Kadar non visse in Ungheria durante gli anni della Guerra. Non era, non fu mai un oppositore del comunismo e i suoi discorsi evolvevano, anche durante la Rivoluzione, di giorno in giorno. Però il suo atteggiamento finale, lo ripeto, merita grande riconoscimento e grande rispetto.
Il colonnello Pal Maleter…
Ho letto una conversazione nei giorni della Rivoluzione tra il colonnello e Gergely Pongracz, capo dei rivoluzionari non comunisti, che stavano al cinema Corvin….
Vicino a casa Sua….
Sì. Di fronte al cinema c’erano le caserme Kilian, da dove i blindati dell’esercito nei primi giorni avevano ucciso sessanta giovani rivoluzionari. La mattina del 26 ottobre Maleter passò dalla parte degli insorti, diventando poi ministro della Difesa. Ciò gli costò la vita…
Maleter fu catturato in modo fraudolento (e così andò anche per Imre Nagy) la notte del 3 novembre, mentre al Quartiere generale sovietico conduceva le trattative da parte ungherese con i russi per il ritiro delle truppe d’occupazione. L’accoglienza fatta alla delegazione ungherese era stata molto cordiale (perfino con gli onori militari), tutto apparentemente procedeva bene…
L’arresto con l’inganno di Maleter ha un precedente nella storia. Nel 1541 sotto le mura di Buda stavano i Turchi, che, vincitori, cacciarono gli austriaci e restarono in Ungheria per un secolo e mezzo. Alcuni aristocratici ungheresi simpatizzavano con i Turchi e scesero nel campo ottomano; ricevuti in modo sontuoso, dopo un pranzo solenne in loro onore e essere stati insigniti di onorificenze, poterono poi trasferirsi in Transilvania e fondare un principato. Tranne uno che, dopo l’ultima tazza di caffè, fu preso e deportato a Costantinopoli, dove morì. Come vede, l’analogia non manca.
JANOS KADAR: UNA FIGURA COMPLESSA
Veniamo al personaggio più controverso, Janos Kadar, che il primo novembre ancora – da segretario del partito comunista riformato – inneggiava (in un’allocuzione via radio a tutti gli ungheresi) all’ “insurrezione gloriosa”, concludendo così: “Il sangue versato prova che il nostro popolo sostiene pienamente la richiesta del Governo riguardante il ritiro delle truppe sovietiche dal Paese. Non vogliamo più la sudditanza della nostra nazione. Siamo uniti per l’indipendenza, per la libertà della patria!”. Poi Kadar scomparve, ritornando il 4 novembre mattina insieme con i carri armati dell’Armata Rossa e leggendo su onde sconosciute un lungo comunicato, in cui tra l’altro annunciava che il nuovo “Governo rivoluzionario operaio-contadino ungherese, nell’interesse del nostro popolo, della classe operaia e del Paese, ha chiesto al comando dell’esercito sovietico di aiutare la nostra nazione a debellare le forze sinistre della reazione e a ristabilire l’ordine e la calma”. Un voltafaccia tanto clamoroso quanto tragico…
Una valutazione dell’agire di Janos Kadar è più complessa di quanto non sembri apparentemente. Bisogna ad esempio ricordare che quando nel 1989 furono organizzati funerali solenni per Imre Nagy c’era una grande folla; dopo alcuni mesi morì Janos Kadar e ai suoi funerali la gente era altrettanta, se non di più. Come mai? Kadar era membro del governo di Imre Nagy, poi è stato portato in Russia, ha accettato di formare un nuovo governo secondo la volontà sovietica, è tornato in Ungheria. E’ stato definito “traditore della Rivoluzione”; altri hanno invece osservato che la soluzione Kadar era l’unica realistica in quel momento. Dopo la repressione sovietica, con Kadar primo ministro, le ritorsioni furono sanguinose: numerosissimi gli arresti, molti i condannati a morte… anche negli anni successivi tanti i sacerdoti incarcerati. Questo accadeva nei primi anni di Kadar. E’ difficile stabilire quanta responsabilità di tutto ciò fosse personalmente di Kadar e quanta del gruppo con cui governava, costituito in grande maggioranza da funzionari comunisti di osservanza moscovita.
Negli Anni Sessanta ci fu una certa svolta nell’atteggiamento del governo Kadar…
Sì, circa a metà di quel decennio Kadar ha incominciato una politica più ‘aperta’ verso le esigenze popolari. Volle provare a essere un dittatore ‘illuminato’. E’ vero che Kadar proveniva da una famiglia povera e per i poveri ha sempre avuto simpatia, un sentimento che i politici che si sono succeduti dopo di lui non avevano. Oggi in Ungheria ci sono nostalgici di Kadar, che negli Anni Settanta e Ottanta era considerato generalmente in Ungheria un leader equilibrato. La gente temeva sempre che Mosca lo sostituisse con qualcun altro, più duro di lui. Kadar nell’ultima parte della sua vita ebbe grandi rimorsi di coscienza anche per il trattamento riservato a Imre Nagy, il che deve essere apprezzato.
I MOTIVI DELL’INSURREZIONE POPOLARE
Eminenza, da quale sentimento nacque secondo Lei in primo luogo la rivolta del 1956?
In una dittatura vera e propria è impossibile una rivoluzione spontanea, che non si avvalga anche di una divisione interna al gruppo dirigente. Certo una parte dei comunisti voleva cambiare il regime, anche se non sapeva fino a che punto poteva farlo. Inoltre il malcontento era grande nel popolo. Però i due sentimenti non coincidevano. Lo stesso colonnello Maleter nei primi giorni aveva invitato i giovani insorti a deporre le armi, ma si era sentito rispondere: “Sì, al momento in cui i sovietici non saranno più in Ungheria”. Il popolo insorto scandiva sempre in strada “Russi a casa! Russi a casa!”: questo era il sentimento dominante. Senza l’Armata Rossa l’Ungheria non sarebbe mai stata comunista. Basti pensare ai risultati di elezioni ‘difficili’ come quelle del 1945 (con l’Armata Rossa in casa) e ancor più del 1947, quando i comunisti, malgrado tutte le pressioni, non andarono oltre un quinto del corpo elettorale. Sotto questo aspetto l’Italia era molto più comunista dell’Ungheria!
Eminenza, Lei ha posto sotto il segno della riconciliazione l’anno del Cinquantesimo, inviando tra l’altro il 7 febbraio una lettera in tal senso ad Alessio II e ricevendo una risposta in cui il patriarca di Mosca e di tutte le Russie scrive: “Il ricordo di quegli eventi riempie il nostro cuore di dolore e di sincero rincrescimento”.
Oggi che cosa pensano gli ungheresi dei russi? Persiste quell’ atteggiamento?
Mi sembra di no. Con il popolo russo in quanto tale gli ungheresi non hanno mai avuto problemi particolari né noi abbiamo mai avuto conflitti con la Chiesa ortodossa russa. Boris Jeltsin nel 1992, con un gesto senza precedenti, ha espresso il suo rimorso al popolo ungherese per gli avvenimenti del 1956. Così anche il patriarca Alessio II, in visita ad Esztergom nel 1994. Oggi quei sentimenti antirussi, che erano contro il regime comunista e non contro il popolo, non persistono più nella gente d’Ungheria.