ANDREA RICCARDI E LA ‘NUOVA’ DIPLOMAZIA PONTIFICIA – di GIUSEPPE RUSCONI – www.rossoporpora.org – 28 marzo 2015
Ampia intervista al fondatore della Comunità di sant’Egidio, lo storico Andrea Riccardi – L’influsso di papa Francesco sulla diplomazia pontificia si traduce in un forte impulso a lavorare di più sul terreno e nelle periferie – L’importanza della preghiera, provvista di una forza i cui effetti non sempre riusciamo a immaginare e a constatare, almeno a breve termine.
Chi è Andrea Riccardi? Per chi si interessa almeno un po’ di associazionismo cattolico o comunque segue l’attualità vaticana, il nome è ben noto. Nato nel 1950, Riccardi è conosciuto in primo luogo per aver fondato nel 1968 la Comunità di Sant’Egidio: il nome riflette quello della piazza trasteverina omonima e la sede dal 1973 è proprio nell’adiacente ex-convento delle suore carmelitane. La Comunità, presieduta dal 2003 dallo storico Marco Impagliazzo, è molto impegnata nel servizio ai poveri, agli emarginati, ai disabili, ai migranti, ai carcerati, a Roma e anche in varie parti del mondo. Non solo: promuove l’educazione alla pace a livello scolastico ed è stata in questi anni protagonista nella risoluzione di conflitti sanguinosi in Paesi come ad esempio il Mozambico. Non è certo un caso se il 20 febbraio scorso la cancelliera tedesca Angela Merkel ha voluto, dopo i colloqui in Vaticano, recarsi proprio a Sant’Egidio per un incontro durato un’ora. Parte fondamentale dell’attività della comunità è la promozione – anche mediante grandi convegni annuali – del dialogo ecumenico (stretti i rapporti con il mondo ortodosso) e interreligioso (forte il legame con il mondo ebraico). Andrea Riccardi è professore di storia contemporanea presso l’Università di Roma 3, studioso di storia della Chiesa e del Papato, già ministro della cooperazione allo sviluppo e dell’integrazione nel governo Monti. Domenica 22 marzo è stato eletto a grande maggioranza anche nuovo presidente della Società Dante Alighieri. Lo intervistiamo a Sant’Egidio, nel giardino prospiciente la Sala Convegni, in cui si sta parlando - una vera ‘prima’ - di dialogo interreligioso tra cattolici e musulmani sciiti, questi ultimi rappresentati da non meno di dieci dignitari provenienti da quel Medio Oriente da cui - oggi ancora più di ieri - ci vengono non poche preoccupazioni. Il tema affrontato con il nostro interlocutore è quello delle ‘novità’ apportate ai modi e ai contenuti della diplomazia vaticana dall’irrompere sulla scena pontificia di un gesuita argentino, Jorge Mario Bergoglio, che si è voluto chiamare Francesco.
Professor Riccardi, prima di affrontare il tema dell’odierna diplomazia pontificia, ci può chiarire che cosa intende Lei quando sente definire Francesco come “papa delle periferie”?
Credo che il discorso sulle periferie esprima un’intuizione importante del Papa: il nostro nuovo mondo, quello globale, è un mondo urbano e di periferie, in cui sia la città che l’intera società si periferizzano. Bisogna ricominciare da lì. Non mi sembra solo un’intuizione evangelica, ma anche una strategia pastorale del Papa quella di andare, uscire verso le periferie. Del resto i suoi viaggi in Europa si sono caratterizzati fin qui per l’applicazione di tale strategia.
Sabato scorso 21 marzo il papa è stato a Napoli, in una giornata intensissima di incontri, di bagni di folla, di parole che colpiscono…
Nel contesto della strategia citata Napoli è stata una tappa molto importante, perché è la prima grande città europea che il Papa ha incontrato, una città che si colloca tra il Grande Sud di Rio e Buenos Aires e il Grande Nord di Parigi. E Napoli ha tutte le caratteristiche di una grande città del mondo globale.
Francesco è anche definito il “papa della misericordia”e non a caso ha indetto l’Anno Santo della misericordia…
Paolo VI osservò che la spiritualità del Concilio ecumenico vaticano II era ben raffigurata dalla parabola del Buon Samaritano. Ora l’indizione del Giubileo straordinario della misericordia significa invitare tutto il popolo a passare attraverso la Porta della misericordia. Una grande intuizione pastorale, cioè una grande intuizione di popolo.
Come si riflettono ‘periferie’ e ‘misericordia’ nell’odierna diplomazia pontificia?
Si è detto che questo Papa è assolutamente estraneo alla diplomazia, non ha mai fatto il diplomatico, nemmeno ha molto viaggiato per il mondo. Però, secondo me, è un uomo dei dolori, attento ai dolori dell’uomo. Sa che cosa significa l’orrore della guerra. Credo che da tale orrore prenda concretezza l’atteggiamento del Papa nei confronti di alcune difficili sfide diplomatiche, ad esempio quelle siriana, israelo-palestinese e ucraina. Si registrano da parte sua interventi puntuali che segnalano come il Papa riprenda ad essere un po’ come il profeta e il motore della diplomazia vaticana, la quale ha una lunga storia, anche gloriosa (basti pensare tra tutti al cardinal Casaroli o al cardinal Silvestrini) ma da qualche tempo un po’ appannata nel mondo globale…
Un po’ appannata? Perché?
Forse perché il mondo globale ha bisogno di audacia… e la diplomazia pontificia è sempre stata prudente. O forse perché abbisognava di un rinnovamento. Mi sembra che lo stia facendo, non per trasformarsi in una diplomazia di esibizione, ma per andare alla radice dell’urgenza odierna: il dialogo tra i popoli e i governi. Senza dimenticare naturalmente l’aspetto fondamentale della difesa della libertas Ecclesiae, grande tema che coinvolge in primo luogo Cina e Paesi musulmani.
Quali sono secondo Lei le caratteristiche personali che papa Francesco mette in tavola per dare impulso alla diplomazia vaticana?
La diplomazia ha bisogno di audacia, discrezione e tempo. Il Papa è un uomo di grande dialogo. Tanti capi di Stato lo vogliono incontrare: lui li ascolta, li prende sul serio, memorizza volti e parole, associa il tutto in un quadro complessivo… soprattutto questo è un Papa della globalizzazione e dunque ha ben presenti i luoghi dei conflitti. Si ha qui una nuova interessante sinergia tra la profezia papale della pace e il lavoro quotidiano della diplomazia vaticana. La mia sensazione è che quest’ultima sia chiamata a una nuova presenza, a nuove attività.
E’ una profezia della pace, quella di papa Francesco, che utilizza volentieri gesti e parole inusuali…
Questo è anche il Papa delle parole e dei gesti… Mi viene da ricordare e la grande preghiera per la pace, in particolare per la Siria, preghiera associata a una giornata di digiuno. Ho ancora chiaro in mente il silenzio impressionante di una Piazza San Pietro affollatissima di popolo orante, quella sera di sabato 7 settembre 2013. Quella preghiera ha fermato la legge del taglione, il dente per dente che ci avrebbe portato in una pericolosa spirale di guerra.
La forza della preghiera è stata rivendicata da papa Francesco anche in altre occasioni…
E’ giusto qui ricordare che tale forza era già alla base del primo incontro di Assisi del 1986, quando papa Wojtyla convocò i grandi leader religiosi perché pregassero insieme. Il papa polacco aveva intuito che le religioni possono essere benzina sul fuoco dei conflitti, ma anche acqua che li spegne.
Però – uno Le potrebbe obiettare - anche partendo dal 1986 non sembra che la forza della preghiera per la pace si sia manifestata con grande regolarità…
Non sono d’accordo. Che cosa sarebbe il mondo senza preghiera? Sarebbe disumano! Che cosa sarebbe il mondo senza dialogo? Sarebbe disumano! Spesso ci si chiede: che cosa hanno cambiato preghiera e dialogo? Io credo molto. La storia è fatta anche di correnti sotterranee, non è solo la cronaca gridata dei giornali. Un buon esempio, tanto recente quanto importante, è dato da quel che si è messo in moto tra Cuba e Stati Uniti. Il Papa lì ha avuto un ruolo importante. Anche la Comunità di Sant'Egidio ha ben seminato silenziosamente, mostrando che si poteva essere cristiani leali con il proprio Paese. Ricordo a tale proposito la grande preghiera interreligiosa pubblica dello scorso settembre a L'Avana, alla presenza di rappresentanti dello Stato. Noi tutti dobbiamo cercare la pace. Poi ognuno si rivelerà con il suo lavoro più o meno determinante. Ma lè un fatto che le correnti profonde della storia agiscono.
Ancora a proposito della forza della preghiera. L'invocazione alla pace per la Terrasanta del 4 giugno scorso nei Giardini vaticani ha sollevato diverse perplessità ed è stata definita da non pochi - specie dentro i Sacri Palazzi - come 'inutile', considerata la situazione 'bloccata' in quella regione...
La ringrazio anche per questa domanda, che mi dà l'occasione di ribadire che a preghiera per lapace non è una gallina che fa subito un uovo. Si connette a un processo profondo di purificazione dell'odio che è nei cuori e fornisce benzina per la guerra. Difendo papa Francesco per l'invocazione alla pacenei Giardini vaticani, perché vedremo in futuro che avrà avuto un senso. La situazione in Terrasanta è 'bloccata'? Dobbiamo avere una visione globale dell'area mediorientale, molto complessa. Secondo me è tempo che noi cambiamo le politiche occidentali fin qui condotte verso il Medio Oriente, in primo luogo verso l'Iraq e verso la Siria.
Lei prima ha citato il 'dossier' ucraino tra i più spinosi della politica internazionale...
Lo scenario è molto difficile. Da una parte l'Ucraina si sente ed è aggredita. Dall'altra non si deve umiliare la Russia. Dentro l'Ucraina, poi, c'è una frammentazione religiosa con tre denominazioni ortodosse, cui si aggiungono i greco-cattolici e i cattolici latini; inoltre non sfugge a nessuno la delicatezza dei rapporti con il Patriarcato ortodosso di Mosca. La religione anche lì è parte del problema e dev'essere parte della soluzione. mi pare che la diplomazia pontificia si stia movendo bene, con la recente visita del Segretario di Stato cardinale Parolin in Bielorussia, a Minsk - sede già di due vertici ucraino-russo-franco-tedeschi - e ad esempio con l'azione molto incisiva del nunzio apostolico a Mosca.
Al centro del Convegno che stiamo seguendo, promosso dalla Comunità di Sant'Egidio insieme con la Fondazione sciitairachena Al-Khoei e con la Fondazione "Missio" di Germania, il tema dei rapporti tra cattolici e sciiti, una delle due grandi correnti musulmane. Sono relazioni particolarmente preziose, soprattutto in un momento come questo in cui l'intera area mediterranea si ritrova in una precarietà grave che trae origine anche dalle azioni dello 'Stato islamico' e delle sue propaggini al di fuori dei territori iracheno e siriano. Lei ha detto tra l'altro nella Sua introduzione che di questi tempi cattolici e sciiti hanno in comune almeno la persecuzione di cui sono oggetto. La minaccia c'è ed è grave...
Grazie anche per questa domanda, che mi dà la possibilità di evidenziare la drammaticità della lotta che travaglia prima di tutto il mondo musulmno: sunniti contro sciiti, sunniti contro sunniti, poi la lotta contro i cristiani e contro l'Occidente. Dobbiamo chiedere ai nostri amici musulmani di risolvere in pace i loro problemi, di rinunciare alla violenza, di distinguere tra religione e fanatismo. Il mondo sciita - come Lei sa, tra i relatori dell'odierno Convegno dieci sono alti dignitari sciiti provenienti da Iraq, Iran, Kuweit, Arabia Saudita, Bahrein, Libano - ha una cultura basata sulla ragionevolezza e ha una gerarchia, fattore molto importante per noi che abbiamo bisogno di interlocutori musulmani legittimati per un dialogo che non sia fatto solo di convenevoli.
P.S. L'intervista appare in versione cartacea nell'edizione di sabato 28 marzo 2015 del 'Giornale del Popolo' (inserto 'Catholica'), quotidiano cattolico della Svizzera italiana.