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    IL PAPA ALLA CEI SI RIVOLGE A OGNI SINGOLO VESCOVO

    IL PAPA ALLA CEI SI RIVOLGE A OGNI SINGOLO VESCOVO – di GIUSEPPE RUSCONI – www.rossoporpora.org – 20 maggio 2014

     

    Francesco ha voluto interpellare con forza dirompente, a livello di domande e comportamenti fondamentali, ognuno dei pastori convenuti per l’assemblea generale della Conferenza episcopale italiana – Quasi del tutto ignorata la Cei come struttura di coordinamento, iniziativa e sostegno – Silenzio sulle iniziative di piazza, come quella del 10 maggio riguardante la scuola italiana

     

     

    Un’apertura inedita, un ciclone che travolge ognuno dei presenti, costringendoli a riflettere individualmente sul fondo del suo essere vescovo e sui comportamenti che ne dovrebbero derivare. Non si può dire che nel tardo pomeriggio di lunedì 19 maggio papa Francesco non abbia messo tutto in opera per ‘firmare’ – con inchiostro indelebile, da primate d’Italia – l’annuale assemblea generale dei vescovi della Penisola, riuniti come consuetudine in Vaticano, nell’aula grande del Sinodo. 

    Nel suo intervento Jorge Mario Bergoglio ha voluto delineare, utilizzando uno schema tripartito (come suo solito), quello che un vescovo deve essere per corrispondere alle attese di Gesù Cristo. Ne è uscito un quadro non certo connotato di onori, ma di oneri, anche entusiasmanti, di certo molto impegnativi  psicologicamente, pastoralmente e pure fisicamente per il singolo che è chiamato a servire Cristo con anello, mitria e pastorale. Ogni singolo in tutto il mondo, non solo in Italia.

    Intervento tripartito, si è detto, preceduto da due osservazioni di Francesco. La prima ricollegata alla lettura del brano del Vangelo di Giovanni, quello del “Seguimi”, che sempre “ha colpito” il Papa per i dubbi espressi da Pietro e per la conclusione, invito pressante a seguire Cristo anche senza che la direzione di marcia sia espressa con precisione. La seconda ha riguardato i (peraltro legittimi) commenti giornalistici sulle divergenze di opinione all’interno della presidenza della Cei, tra “uomini del Papa e non del Papa”. Francesco ha qui rilevato che in tale sede sono “tutti uomini del Papa” e che “a volte la stampa inventa tante cose”.

    “Il popolo fedele ci guarda”, ha poi evidenziato il Papa, introducendo tre “tratti comuni” del profilo episcopale, al di là di circostanze personali e ambientali proprie di ogni singolo e di ogni diocesi. Ognuna delle tre parti si è caratterizzata per alcune domande fondamentali iniziali, un elenco di “tentazioni” ( sono “legioni”) cui è sottoposto ogni vescovo, una conclusione.

    Dapprima il vescovo deve essere “pastore di una Chiesa che è comunità del Risorto” e deve rifiutare di “stemperare lo scandalo della Croce” con i suoi comportamenti. La tentazione può configurarsi come scarso entusiasmo, quieto vivere, accidia, tristezza, presunzione di chi si illude di potersela cavare attingendo “all’abbondanza di risorse” o “alle strategie organizzative”. E’ vero che “i piani pastorali servono”, ma non bastano e la vita pastorale “non può ridursi solo ad alcuni momenti religiosi”. In effetti, se “ci allontaniamo da Gesù Cristo, finiamo per toccare con mano la sterilità delle nostre parole e delle nostre iniziative”.

    Secondo tratto: il vescovo deve essere pastore “di una Chiesa che è corpo”. Il cuore deve spogliarsi “di ogni interesse mondano”, deve essere “accogliente”, così da potere servire con efficacia l’unità ecclesiale. Ecco… l’unità – qui Francesco ricorda Paolo VI  - “questione vitale per la Chiesa”, “gioiello” che deve essere stella polare per ogni vescovo,  perché “la povertà di comunione costituisce lo scandalo più grande per il popolo santo”, la “lacerazione della tunica” di Cristo. In certi casi è meglio - ha detto il papa – “cedere, rinunciare”, anche sopportando qualche “ingiustizia”, piuttosto che ferire l’unità. Si può osservare che finora si era sempre parlato dello “scandalo della disunità dei cristiani”, intendendo la divisione tra cattolici, ortodossi, protestanti; toni e contenuti delle parole utilizzate non certo a caso da Francesco suonano nuovi – almeno con tale intensità – se riferiti alle divergenze esistenti all’interno del cattolicesimo. Anche qui le tentazioni che possono favorire la disunione sono tante: dalle note “chiacchiere” alle “mezze verità che diventano bugie”, dalla “litania delle lamentele” alla “durezza dei giudizi”, anche al “lassismo”, a “gelosie, invidie, settarismi, correnti”. Ce n’è pure per chi “cerca le sicurezze perdute nel passato, umiliando l’unità”. Gli antidoti a tali tentazioni? Il tuffarsi nell’esperienza ecclesiale, la partecipazione, la collegialità, la valorizzazione delle diocesi (“anche delle più piccole”) e delle conferenze regionali, così da formare “una rete” i cui membri stiano in “relazioni di qualità”. Bisogna essere vicini ai sacerdoti, “educarli a non fermarsi a calcolare entrate e uscite”, esortarli alla “pazienza, che è il nome dell’amore maturo”. E’ necessario “ascoltare il gregge”, anche nelle sue manifestazioni di “pietà popolare”; e rendere “corresponsabili” i laici, donne e giovani in primo luogo. Insomma bisogna essere “lievito di unità” e non ci si deve “attardare in una pastorale di conservazione, ma far perno sull’essenziale, amandolo e facendolo amare”.

    Terzo e ultimo tratto: il vescovo deve essere pastore di una Chiesa che è “anticipo e promessa di Regno”. Qui le tentazioni principali sono due: distinguere “i nostri” dagli “altri” e “rimanere a sedere ai piedi del campanile”, attendendo che il mondo passi. No, occorre invece “uscire dal recinto”, coniugando “verità e misericordia”, coscienti che “senza verità, l’amore è una scatola vuota”, una “riserva di buoni sentimenti”, ma di peso marginale. Bisogna essere “eloquenti nei gesti”, “semplici nello stile di vita, poveri e misericordiosi, interiormente liberi” così da poter credibilmente accompagnare le persone riscaldandone il cuore. Tre gli ambiti principali in cui è richiesta una presenza visibile e incisiva del vescovo. L’ambito della famiglia (“Fatevi voce convinta, testimoniatene la centralità”), in cui emergono anche il sostegno alla vita nel concepimento e nella fase finale e la missione educativa dei genitori. L’ambito del lavoro, in cui il dramma di chi non riesce a portare a casa il pane si interseca con quello di chi non riesce più a far quadrare i conti di un’azienda. L’ambito delle migrazioni, in cui si è confrontati con chi fugge dalla “mancanza di futuro”.

    Non si può accettare che si sacrifichi l’uomo sull’altare del profitto. C’è bisogno di un “nuovo umanesimo, non solo economico, ma culturale, morale, spirituale”.

    Come si sarà notato, nel suo discorso il Papa non si è occupato della Cei in quanto struttura di coordinamento, iniziativa e sostegno per i vescovi italiani. Non ha citato le iniziative della stessa (ad esclusione di un accenno al Convegno ecclesiale di Firenze) e dunque ha taciuto ad esempio sulla grande testimonianza di piazza in favore della scuola (ed anche della scuola cattolica) di sabato 10 maggio. Neppure ha evocato con precisione i problemi principali d’attualità nell’agenda “Italia”, su cui la Cei si sta impegnando con forza. Il Papa ha scelto diversamente, preferendo tornare a illustrare i ‘fondamentali’ di ogni vescovo. Senza di quelli, è sembrato voler dire, non si vincono le partite e ogni altra azione offensiva, pur lodevole, manca della necessaria incisività.  

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