LIBRI: MARCHETTO RISPONDE A SPADARO/GALLI - INTERNATI MILITARI ITALIANI– di GIUSEPPE RUSCONI – www.rossoporpora.org – 7 agosto 2017
Qualche annotazione su due libri. La risposta dell’arcivescovo Agostino Marchetto - “miglior ermeneuta (interprete) del Concilio” secondo papa Bergoglio- al volume “La riforma e le riforme nella Chiesa” curato da padre Antonio Spadaro e dal teologo argentino Carlos Maria Galli. Il diario sereno ma toccante del cattolico Enrico Zampetti quand’era internato militare italiano nei lager nazisti: pagine da meditare ancora oggi.
VATICANO II: AGOSTINO MARCHETTO, IL “MIGLIOR ERMENEUTA DEL CONCILIO” (FRANCESCO SCRIPSIT) RISPONDE A PADRE SPADARO E A CARLOS MARIA GALLI
Chi è Agostino Marchetto? I nostri lettori conoscono certamente il nome e probabilmente anche qualcosa del suo studio approfondito e costante del Concilio ecumenico vaticano II (vedi articoli e interviste in questo stesso sito www.rossoporpora.org ).
Settantasettenne vicentino, l’arcivescovo Marchetto ha servito la diplomazia pontificia per molti anni, soprattutto in Africa (dal 1985 nunzio apostolico in Madagascar, dal 1990 in Tanzania), poi in Bielorussia (dal 1995); nominato nel 2001 segretario del Pontificio Consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti (un Consiglio ormai, con suo rammarico, inglobato in un mega-dicastero), si ritira dall’incarico al compimento dei settant’anni (anche per le note frizioni con la Segreteria di Stato del tempo). Da allora ha dedicato molto tempo alla questione dell’interpretazione (ermeneutica) del Concilio, pubblicando tra l’altro nel 2015 il ‘diario’ conciliare di monsignor Pericle Felici e relativo Addendum.
E’ uscita in questi giorni la sua ultima opera (per i tipi della Libreria editrice vaticana): “Una risposta” al volume “La riforma e le riforme nella Chiesa”, curato dal gesuita Antonio Spadaro e dal decano della Facoltà di teologia di Buenos Aires (nonché membro della Commissione teologica internazionale) padre Carlos Maria Galli. Altrimenti detto: il “miglior ermeneuta del Concilio Vaticano II” (papa Bergoglio scripsit in una lettera autografa del 7 ottobre 2013 pubblicizzata -su insistenza di Francesco - da Marchetto il 12 novembre successivo in Campidoglio, come appare anche in questo stesso sito www.rossoporpora.org ) risponde con il consueto garbo vicentino (accompagnato però da ficcanti punture di spillo) a quanto pubblicato sull’argomento da autori vicinissimi a Casa Santa Marta…: il primo di certo, ma anche il secondo conosce Jorge Mario Bergoglio da quarant’anni ed è uno dei suoi teologi di riferimento…
Nell’introduzione di “Una risposta” Agostino Marchetto, subito dopo aver evidenziato che dalla lettura del volume curato da Spadaro e Galli “ci si troverà arricchiti” (e qui è tutto il garbo vicentino), punge in profondità i due curatori e gli autori che hanno partecipato allo stesso volume, scrivendo che i contributi “si situano tutti, o quasi, in una linea unidimensionale di riforma, una sottolineatura della sinodalità-collegialità, senza tener molto presente e sviluppare l’altro polo del fondamentale binomio primato-sinodalità, cioè il primato”. Che, affonda ulteriormente Marchetto, “nel suo aspetto conciliare ha costituito uno dei centri vitali e specifici di attenzione del Concilio ecumenico vaticano II (…)”.
Insomma – nota “il miglior ermeneuta del Concilio” (lo ripetiamo: Bergoglio scripsit) – è “proprio per questo, in fondo, monocorde tono del coro e la conseguente unilateralità dell’opera, che è sorta in me l’idea di far udire un’altra voce, per quel et et che caratterizza il cattolicesimo, la nostra via media, e applicare la giustizia dell’audiatur et altera pars”. Conseguentemente, scrive l’Autore, le sue “critiche costruttive” saranno in linea “con l’ermeneutica corretta espressa finalmente da Benedetto XVI, ma in comunione di pensiero al riguardo dei due Papi conciliari e di quelli post , cioè non di rottura nella discontinuità, ma di riforma e rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto Chiesa”.
Da quanto citato già si intravede come la critica di Marchetto sarà rispettosa e rigorosa nel contempo…non se ne lascerà scappare una che è una! Un paio di esempi.
Osserva l’Autore riguardo a quanto scritto da Carlos Maria Galli (in “La riforma missionaria della Chiesa secondo Francesco”), per il quale Francesco ha espresso il desiderio di una Chiesa povera per i poveri: “Ciò non toglie si possa ricordare che nel Vaticano II ci fu chi voleva un documento sulla Chiesa tutto impostato su questo tema e non si ebbe. Anche la storia, oltre che l’ermeneutica corretta, va rispettata e non è questo, certo, da me riferito a papa Francesco”.
Invece Massimo Faggioli, noto intellettuale organico a Casa Santa Marta (molto coccolato dal ’Sismografo’ castrista), riflette su “Una riforma del governo centrale di una Chiesa collegiale e sinodale a cinquant’anni dal Vaticano II”. Annota qui Marchetto: “Per Faggioli vi sarebbe un divorzio tra ciò che disse il Vaticano II (nei dibattiti in aula e nelle proposte presentate nelle commissioni conciliari) e ciò che decisero il Concilio e Paolo VI (specie quello che i Papi del periodo postconciliare deliberarono sulla Curia). Il paziente lettore intravede già dove si vada a parare per distanziare. In effetti non ogni cosa detta in Concilio è di fatto diventata Concilio, come è giusto sia stato”. Però Faggioli continua “imperterrito”, “sentenzia”… ma alla fine rileva l’Autore: “Credo che anche il paziente lettore, oltre allo scrivente, sarà stanco di tutto questo proporre a ruota libera nella linea di chi più ne ha più ne metta, per cui ci fermiamo (…)”.
Ce n’è a sufficienza per invogliare qualche interessato a leggere con attenzione la “Risposta” di Agostino Marchetto. Ricordiamo infine coloro che hanno contribuito al volume curato da Antonio Spadaro e Carlos Maria Galli (oltre ai due curatori), i cui testi sono stati analizzati criticamente dall’Autore: Hermann J. Pottmeyer, John W.O’Malley, Andrea Riccardi, Giancarlo Pani, Angelo Maffeis, Hervé Legrand, Dario Vitali, Alphonse Borras, Gilles Routhier, Silvia Scatena (che ha scatenato la critica di Marchetto), Severino Dianich, Salvatore Pié-Ninot, Myriam Wijlens, Massimo Faggioli, Carlos Schickendantz, William Henn, Piero Coda, Joseph Famerée, Peter de Mey, Jorge A. Scampini, Juan Carlos Scannone, Serena Noceti, Mario de França Miranda, Leonard Santedi Kinkupu, José Mario C. Francisco, Mary Melone e – per chiudere alla grande – Victor Manuel Fernandez, altro teologo super-organico a Casa Santa Marta.
INTERNATI MILITARI ITALIANI NEI LAGER NAZISTI: IL ‘DIARIO’ CON ‘LETTERA A MARISA’ DI ENRICO ZAMPETTI
Non sappiamo se il libro sia ancora in circolazione, pubblicato com’è stato nell’ormai lontano 1992 dalle Edizioni Studium (come diciottesimo volume della collana ‘La coscienza del tempo’). Il titolo è: “Dal Lager – Lettera a Marisa”: c’è capitato tra le mani per caso, l’abbiamo letto con attenzione e con crescente compartecipazione e ci sembra opportuno (soprattutto in tempi questi di memoria storica molto vacillante, specie tra le giovani generazioni) proporvelo… in ogni caso lo troverete in biblioteca! L’autore è Enrico Zampetti, che concluse i suoi giorni terreni nel 1988 da direttore della Biblioteca del Senato della Repubblica, 43 anni dopo la fine di una guerra, che per due anni aveva vissuto da sottotenente dei bersaglieri e per gli ultimi 574 giorni da internato militare (in gran parte in diversi lager nazisti).
Pubblicato a cura di Olindo Orlandi e Claudio Sommaruga, il ‘diario’ ha una presentazione molto intensa del noto storico cattolico Vittorio E. Giuntella (morto nel 1996), pure internato in Germania, che ricorda il terribile inverno nel campo di Wietzendorf: “Enrico non si levava mai il passamontagna nemmeno quando andavamo a Messa nell’angolo di una baracca, dove era possibile celebrarla. Insieme rievocavamo gli entusiasmi del passato (NdR: erano ambedue nella Federazione universitaria cattolica italiana, Fuci). Enrico mi parlava spesso della sua fidanzata ed io di mia moglie e della figlia, che mi era nata mentre ero nel lager”. La fidanzata di Enrico si chiamava Marisa (e poi direbbe sua moglie): il ‘diario’ comprende una lunga lettera proprio a Marisa, scritta nel lager nazista di Deblin (situato nella Polonia occupata), incominciata il 31 ottobre 1943 e interrotta il 22 marzo 1944, con il trasferimento nel lager di Oberlangen (nell’Olanda occupata). La lettera fu poi ripresa il 24 giugno 1945 due mesi dopo la liberazione, e continuata fino al 30 luglio (a pochi giorni dal rimpatrio), grazie a note prese nel lager di Wietzendorf.
Il ‘diario’ viene completato dalle notizie più scarne riportate in un’agendina (scampata incredibilmente alle tante perquisizioni e ai tanti trasferimenti disumani) che copre il periodo dall’8 settembre 1943 al 25 agosto 1945, quando (un sabato sera) Zampetti rivede casa sua a Roma.
Come sintetizzare le caratteristiche del ‘diario’? Ci serviamo delle parole di Giuntella: “E’ del tutto particolare per l’ampiezza della stesura, per l’efficacia della descrizione di ambienti e di persone, e dei contrasti che vi regnavano, e, da ultimo, per la notevole sagacia impiegata a celarlo nelle ripetute perquisizioni. Ma la sua peculiare caratteristica è data dalla eccezionale forma letteraria, quella di una lunga lettera alla fidanzata (…), che non è , si badi bene, un espediente stilistico, ma un riferimento profondo, continuo, vitale (…). Annotazioni giorno per giorno (…) talvolta ora per ora, che, come dirà Enrico più tardi, hanno resistito all’usura degli eventi e al mutare delle situazioni conservando tutta la loro carica e la loro sostanza e riflettono i valori che ci dettero allora la forza per contrastare con la umana dignità la degradazione del lager e possono darci ancora oggi motivazioni ideali per affrontare le difficoltà dell’ora presente”. Perciò “il diario di Enrico è un frammento, ma un frammento prezioso, della storia del lager, perché non parla solo delle vicende esteriori, ma del come un internato l’ha vissuto interiormente, affermazione di una libertà che la violenza dei nazisti non è riuscita a conculcare”.
Come rileva lo stesso Enrico Zampetti, “tornando a casa ho riportato con me 400 pagine di diario e di appunti, oltre alle note contenute nell’agendina tascabile. Oggi queste carte non sono altro che un resoconto; ma per ventiquattro mesi esse furono per me un mezzo di sopravvivenza, dal momento che l’imperativo di considerare ogni giorno di prigionia una testimonianza da offrire al Signore mi spinse, come per un insopprimibile bisogno (anche quando non me la sentivo, anche quando dovevo barattare il pane per la carta), ad annotare le singolari e sconvolgenti esperienze che andavo facendo”.
Che cosa ha registrato Zampetti? “Dagli eventi materiali dell’esistenza giornaliera, come le condizioni meteorologiche, l’ora della sveglia e del coprifuoco, la durata degli appelli, le razioni di viveri e i turni di corvée, agli aspetti morali e politici della vita nel lager, con particolare riferimento alla nostra situazione di ‘traditori’ e di ‘internati militari’; alla propaganda repubblichina e nazista per l’adesione alla repubblica sociale e al lavoro; al comportamento dei carcerieri e alle notizie di radio fante; fino ai luoghi attraversati durante i trasferimenti, agli incontri con gli amici, ai libri letti, al tempo passato a scrivere o a pregare”.
Nell’introduzione Claudio Sommaruga evidenzia anche tratti della storia dell’internamento militare italiano nei lager nazisti. Una storia spesso rimossa, che coinvolse oltre 600mila militari (circa 50mila i morti nei lager) che furono presi prigionieri dai tedeschi dopo l’8 settembre. Denominatori comuni per tutti i diari ritrovati: la fame (che ritorna in tutti i diari) e l’obbligo della scelta, che si riproponeva a scadenze regolari. Infatti gli internati militari italiani (I.M.I) “potevano in ogni momento, e con una sola firma estorta in stato di necessità, varcare il cancello del lager e magari tornare a casa”. Scelsero di farlo (per ragioni di famiglia, di salute) in alcune decine di migliaia; ma la gran parte rifiutò, anche la possibilità di ‘lavoro volontario’ per i tedeschi. No dunque alla collaborazione armata con Hitler, poi con il Mussolini di Salò, poi a quella lavorativa con il Reich nazista: “per onore, dovere, fedeltà al giuramento al Re, lealtà all’esercito italiano legalitario, dignità, coerenza, motivazioni religiose, politiche, opportunità di non concorrere al protrarsi di una guerra ingiusta e della propria prigionia”.
Per “un cattolico come Zampetti” a tutte queste ragioni se ne aggiungeva una, “preminente”: “il non poter scendere a patti e compromessi con ideologie neopagane, barbare e violente, distruttrici della personalità e della dignità dell’uomo immagine di Dio”. E’ così che “la resistenza politica diventa allora conseguenza logica e pragmatica di quella religiosa”.
Il ‘diario’ ripropone grazie alla penna di Zampetti le immagini intense della vita da internati a Deblin (31 ottobre 1943 – 22 marzo 1944), Oberlangen (23 marzo 1944- 13 giugno 1944), Duisdorf (14 giugno 1944-primo agosto 1944), Colonia (Arbeitskommando 96, 2 agosto 1944-28 settembre 1944), Wietzendorf (29 settembre 1944-31 marzo 1945); poi “i giorni dell’epilogo” (primo aprile 1945 – 30 aprile 1945), la lunga attesa del rimpatrio (primo maggio 1945- 16 agosto 1945), il ritorno (17 agosto 1945-25 agosto 1945). Nel ‘diario’ anche una ventina di foto e raffigurazioni in bianco e nero (soprattutto della vita nei lager), di cartine, di piantine, oltre che di Enrico e Marisa negli Anni Quaranta. In appendice le testimonianze della moglie Marisa, del figlio Andrea Zampetti, di Olindo Orlandi e di Antonio Sanseverino, prima di una sintesi dell’attività di Enrico Zampetti da storico dell’Italia repubblicana.