LICEO GIULIO CESARE DI ROMA/ FOIBE E ESODO – TERRORISMO E MAFIA – di GIUSEPPE RUSCONI – www.rossoporpora.org – 17 marzo 2018
Mercoledì 14 e giovedì 15 marzo lo storico Liceo classico romano ha offerto agli studenti la possibilità di riflettere su pagine drammatiche della storia italiana: dapprima sulla tragedia delle foibe e dell’esodo (con le testimonianze di esuli), poi – grazie al giudice GianCarlo Caselli - sulla lotta contro il terrorismo delle Brigate Rosse (conclusa) e contro la mafia (purtroppo ancora in corso, come è ben noto).
Occasione di crescita civile per gli studenti: lo sono stati senza dubbio due incontri su pagine drammatiche della storia italiana promossi questa settimana dal Liceo classico Giulio Cesare di Roma. Il primo si è svolto mercoledì 14 marzo e ha inteso ricordare la tragedia delle foibe e dell’esodo degli italiani dall’Istria, da Fiume, dalla Dalmazia. Il secondo, protagonista il giudice GianCarlo Caselli, si è incentrato sull’evocazione della lotta contro la mafia e contro il terrorismo delle Brigate Rosse (proprio ieri, 16 marzo, ricorreva il cinquantesimo del rapimento di Aldo Moro e del massacro della sua scorta). Ambedue gli incontri sono stati seguiti con grande coinvolgimento dalla folta platea di studenti convenuti nell’Aula Magna: e i relatori sia di mercoledì che di giovedì si sono complimentati con loro (l’esule Laura Brussi Montani: “Grazie per la vostra grandissima attenzione, un po’ rara” – il giudice GianCarlo Caselli: “Vi ringrazio per come mi avete ascoltato”).
LA GIORNATA DEL RICORDO: FOIBE E ESODO DA ISTRIA, FIUME, DALMAZIA
Nel saluto d’apertura la preside Paola Senesi ha evidenziato come con le leggi del 20 luglio 2000 (Memoria della Shoah, delle leggi razziali, dell’internamento degli italiani nel Reich, degli atti di eroismo contro lo sterminio degli ebrei) e del 30 marzo 2004 (per rinnovare il ricordo delle tragedie delle foibe e dell’esodo di istriani, fiumani e dalmati) la Repubblica italiana abbia istituito due Giornate in cui le scuole di ogni ordine e grado sono invitate a organizzare incontri intesi a far conoscere quanto successe in quegli anni drammatici. Il ‘Giulio Cesare’, che anche quest’anno ha onorato la Memoria della Shoah (viaggio ad Auschwitz, incontro del 6 febbraio – vedi su questo stesso sito www.rossoporpora.org ), ha voluto (pur con uno spostamento di date) rievocare - conformemente a quanto prevede la legge – quanto successe ai confini italiani orientali tra il 1943 e il 1956 (prima le foibe, poi l’esodo). Almeno 250mila gli esuli da quelle terre, in gran parte italiani; almeno 10mila gli infoibati o comunque assassinati (ancora in larga parte italiani) dalle milizie comuniste titine.
Esemplare quanto detto il 9 febbraio del 2004 dall’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi: “La tragedia delle Foibe fa parte della memoria di tutti gli italiani. La Repubblica, consapevole dei valori universali di libertà e democrazia che le istituzioni nazionali ed europee hanno saputo costruire, ricorda quegli eventi con dolore e rispetto.(…) La ricostruzione e la rinascita della nuova Italia costarono sacrifici grandissimi. In particolare, gli italiani delle terre d'Istria e di Dalmazia furono colpiti da una violenza cieca ed esecranda e dalla sventura di dover abbandonare case e luoghi familiari”.
Di particolare intensità, ha evidenziato la preside del ‘Giulio Cesare’, quanto affermato da Giorgio Napolitano il 10 febbraio del 2007: “Da un certo numero di anni a questa parte si sono intensificate le ricerche e le riflessioni degli storici sulle vicende cui è dedicato il ‘Giorno del Ricordo’ : e si deve certamente farne tesoro per diffondere una memoria che ha già rischiato di esser cancellata, per trasmetterla alle generazioni più giovani, nello spirito della stessa legge del 2004. Così, si è scritto, in uno sforzo di analisi più distaccata, che già nello scatenarsi della prima ondata di cieca violenza in quelle terre, nell'autunno del 1943, si intrecciarono ‘giustizialismo sommario e tumultuoso, parossismo nazionalista, rivalse sociali e un disegno di sradicamento’ della presenza italiana da quella che era, e cessò di essere, la Venezia Giulia. Vi fu dunque un moto di odio e di furia sanguinaria, e un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel Trattato di pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una ‘pulizia etnica’.”
Parole chiare e senza sconti, che sono riecheggiate anche in alcuni interventi della giornata, le cui motivazioni sono state accennate dallo studente Piero Insola. Il contesto storico-geografico della vicenda è stato illustrato – con l’ausilio di una serie di cartine – da Arrigo Bonifacio, ricercatore universitario (La Sapienza) ed esperto di storia e politica internazionale: “Se si affronta l’argomento isolandolo dal contesto, si rischia di non capirci nulla”. Le foibe insomma non sono state un qualcosa di improvviso nella storia di quella regione italiana, colonizzata dai romani, invasa da genti di ceppo germanico e slavo già nell’Alto Medioevo, soggetta a Venezia, poi all’Impero Austro-Ungarico. E’ nell’Ottocento che, come nel resto d’Europa, nascono i nazionalismi: quello degli italiani che vogliono riunirsi all’Italia, quello degli slavi che invece sognano un proprio grande Stato. Al crollo dell’Impero nel 1918 le tensioni si accrescono. Quella dell’Italia è una ‘vittoria mutilata’, dato che non le viene assegnata gran parte di quella Dalmazia prevista nel patto di Londra del 1915. Con l’avvento del fascismo, si procede all’italianizzazione forzata a danno degli slavi (mentre l’Impero Austro-Ungarico tendeva a promuovere per ragioni di equilibri interni piuttosto il contrario); scoppia la Seconda Guerra mondiale, Germania e Italia invadono il Regno dei Serbi, Croati, Sloveni, travagliato da una feroce guerra civile dopo il colpo di stato militare anti-hitleriano del 27 marzo 1941.
Si giunge all’8 settembre 1943 (armistizio firmato tra il governo Badoglio e gli Alleati) e nella Venezia Giulia è il caos: si hanno le prime centinaia di infoibati (anche diversi italiani antifascisti, partigiani ‘bianchi’, leader anticomunisti slavi) o comunque assassinati dalle milizie partigiane jugoslave aiutate in certi casi da partigiani italiani. La seconda ondata, quantitativamente molto maggiore, avverrà a partire dal maggio 1945, dopo la fine della Guerra: sarà in azione “una lucida macchina di sterminio di chi si vuole opporre all’annessione alla Jugoslavia”. La persecuzione e altri atti terroristici (come la strage di Vergarolla, spiaggia di Pola, del 18 agosto 1946) spingeranno all’esilio gran parte della popolazione italiana nelle zone occupate dalle milizie comuniste jugoslave. E l’esodo proseguirà fino al 1956, in particolare dopo la firma del Trattato di Parigi del febbraio 1947 e del Memorandum di Londra dell’ottobre 1954.
Dopo l’avvio alla conoscenza della storia di quelle vicende tragiche, ecco le emozioni suscitate dal video “Foibe-Martiri dimenticati” del defunto Claudio Schwarzenberg (sindaco della Libera città di Fiume in esilio): l’ha presentato Guido Cace, presidente dell’Associazione Nazionale Dalmata. Commoventi le testimonianze di Carlo Montani (esule da Fiume), che ha ricordato il viaggio di 14 giorni in carro-bestiame dalla sua città a Firenze e ha riaffermato la sua fede in quel Dilexi iustitiam, odivi iniquitatem, propterea morior in exilio voluto da papa Gregorio VII sulla sua tomba a Salerno. Da parte sua Laura Brussi Montani, esule da Pola, ha raccontato dei difficili giorni in Italia: “Avremmo voluto parlare pubblicamente di quanto successo. Ma non potevamo, eravamo soli e una parte della popolazione aveva di noi un’immagine negativa”. Come è noto ragioni di opportunismo politico-commerciale (la Jugoslavia con Tito si staccò da Mosca, la Jugoslavia poteva essere un buon partner in ambito economico) e ragioni di ‘fratellanza’ (e complicità) comunista suggerirono per decenni ai governi italiani di stendere su foibe ed esodo un velo di silenzio vergognoso (rotto ufficialmente solo agli inizi degli anni Duemila con l’istituzione del Giorno del Ricordo).
L’ambasciatore a riposo Gianfranco Giorgolo (già Console generale a Zurigo e ambasciatore a Amman), nato a Veglia nel Carnaro, ha ricordato che la Dalmazia fino al Mille era “l’antemurale della latinità”: e “le pietre ancora parlano veneto e latino“. L’ambasciatore ha evidenziato tra l’altro la direttiva di Tito (novembre 1943) con la quale il capo della guerriglia comunista jugoslava chiedeva di “eliminare con ogni mezzo ogni presenza italiana in Dalmazia e in Istria”. E, dopo aver espresso il timore che dal ‘negazionismo’ sulle foibe si possa passare a una sorta di ‘giustificazionismo’, Giorgolo ha ripreso una citazione molto significativa di Giovanni Paolo II (dal Vangelo di Giovanni): “Solo la verità vi renderà liberi”.
L’incontro, cui ha collaborato Fabio Cecchi (docente di storia e filosofia nel Liceo), si è concluso con alcune domande degli studenti che hanno chiesto se la popolazione italiana si attendeva di dover lasciare la propria terra e i motivi del silenzio mantenuto in Italia su quanto successo. Un folto gruppo è poi restato per porre altre domande ai testimoni di una tragedia riemersa solo da qualche anno dai silenzi interessati della politica e del resto ancora – da alcuni – considerata ‘scomoda’. Dunque: da ‘nascondere’.
IL GIUDICE GIANCARLO CASELLI: LA LOTTA CONTRO IL TERRORISMO DELLE BRIGATE ROSSE E CONTRO LA MAFIA
Giovedì 15 marzo gli studenti del ‘Giulio Cesare’ hanno vissuto un altro momento molto intenso ascoltando, dalla sua stessa bocca, il racconto delle esperienze del giudice anti-terrorismo e anti-mafia GianCarlo Caselli. Un magistrato, oggi settantottenne, ancora ben attivo sul fronte della lotta alla mafia, in questo caso ‘agroalimentare’, presiedendo il comitato scientifico dell’ ‘Osservatorio’ promosso dalla Coldiretti. Lo fa, come ha evidenziato nel suo saluto la preside Paola Senesi, “spinto dalla sua inesausta passione civile”.
Dell’incontro - svoltosi nell’ambito di un progetto di alternanza scuola-lavoro in collaborazione con l’Ordine degli avvocati di Roma, con il coordinamento dei docenti Maria Giordano e Giuseppe Mesolella - sintetizziamo i principali spunti di riflessione offerti da Caselli, opportunamente stimolato dalle domande di Massimo Ferraro (coordinatore dell’ ‘Osservatorio’) e poi da quelle degli studenti.
Quali le analogie e le differenze tra il terrorismo delle Brigate Rosse e di Prima linea e la mafia come conosciuti dal relatore? Caratteristica fondamentale della mafia è l’interesse per il potere economico, sviluppando essa a tale scopo legami con altri tipi di potere come quelli amministrativo e politico. Il terrorismo è invece fondato sul fanatismo ideologico.
Tratto comune tra i due fenomeni è il disprezzo della vita umana fino all’esercizio di una “ferocia nazista” come dimostrano i casi dell’uccisione (sciolto nell’acido) del tredicenne Giuseppe Di Matteo (figlio di uno dei primi pentiti di mafia) e di Roberto Peci (fratello del primo pentito delle Brigate Rosse), assassinato in una discarica.
Ambedue i fenomeni poi sono connotati dalla segretezza dell’organizzazione: da qui la necessità di trovare dei pentiti.
Analoga è anche “l’estrema suscettibilità alle critiche”: il terrorismo rosso uccise tra gli altri giornalisti come Casalegno, Rossi, Tobagi e ‘gambizzò’ Montanelli; vittime della mafia furono invece giornalisti come Fava, De Mauro, Impastato.
Comune ai due fenomeni la difficoltà di ‘stanarli’ con norme penali adeguate. Pur essendo presente sul territorio da un paio di secoli, l’associazione mafiosa fu riconosciuta come reato solo nel 1982 (“Prima, come disse Giovanni Falcone, perseguire la mafia era come pretendere di fermare un carro armato con una cerbottana”). La prima condanna in Cassazione risale al 1992. Quanto al terrorismo delle Brigate Rosse, si dovette ‘adattare’ una norma che riguardava la lotta al brigantaggio nelle campagne.
Grande la differenza nei risultati della lotta contro tali fenomeni: il terrorismo delle Brigate Rosse è stato sconfitto dopo quindici anni di sforzi, la mafia no (“Siamo ancora lungo la strada”). Certo, rispetto a quanto successo in altri Paesi europei confrontati con il terrorismo rosso, in Italia esso è durato molto di più. Nato come “costola” della sinistra intellettuale, sociale, operaia, “se ne è man mano distaccato quando passò alla violenza organizzata”. Ha provocato molti più morti che negli altri Paesi, ma in Italia ha potuto usufruire delle garanzie concesse anche ai terroristi (come ad ogni altro imputato) dal sistema giudiziario italiano: “Da noi li abbiamo processati, non ‘suicidati’ come accadde in Germania o internati in campi di concentramento come in Gran Bretagna”.
Nel 1993, dopo le stragi di Capaci (un chilometro e mezzo di autostrada polverizzata, morirono Giovanni Falcone, la moglie e tre agenti di scorta) e di via d’Amelio (“Palermo come Beirut”, morirono Paolo Borsellino e cinque agenti di scorta), Caselli volle lasciare Torino per insediarsi come Procuratore della Repubblica nel capoluogo siciliano: “Già fin da studente – ha detto GianCarlo Caselli – ho inteso la magistratura come speranza di fare qualcosa di utile per la collettività, da interpretare con l’etica della responsabilità entro il perimetro delle leggi”.
La stagione dei giudici Falcone e Borsellino si era conclusa tragicamente, eliminati perché avevano inferto colpi duri alla mafia. Per Caselli “Falcone ne aveva capito più di tutti: con lo strumento dell’articolo 416 bis, quello dell’aggravante mafiosa, e la creazione di un pool antimafia, con la centralizzazione delle informazioni, era riuscito per la prima volta a combattere incisivamente il fenomeno”. Quando, “facendo il proprio dovere”, incominciò a indagare sui rapporti tra mafia e politica, la sua sorte fu segnata: “Non fu per niente aiutato, fu invece professionalmente bastonato”.
All’arrivo a Palermo, GianCarlo Caselli ricorda il “consenso generalizzato della società civile, un’unità nazionale formidabile” che gli permise di dare “nuovo entusiasmo” alla lotta contro la mafia, grazie anche agli strumenti dell’articolo 41 bis (carcere duro per i mafiosi, che fino allora vivevano in carcere “a champagne e aragoste”) e della legge sui pentiti. In quegli anni Novanta i risultati arrivano: un esempio sono i 650 ergastoli comminati.
Nel 1993 Caselli iscrive Giulio Andreotti nel registro degli indagati per associazione mafiosa. La vicenda giungerà a compimento con la sentenza definitiva della Cassazione del 2004. Come ha ricordato GianCarlo Caselli, vi si legge che Andreotti commise il reato di partecipazione all’associazione mafiosa Cosa Nostra, “concretamente ravvisabile fino alla primavera 1980”, un reato però ormai caduto in prescrizione; Andreotti fu invece assolto per i fatti successivi alla primavera del 1980.
Tra i pentiti di mafia, un ruolo preminente ha avuto Tommaso Buscetta, “che ha raccontato a Falcone cose che nessuno mai aveva conosciuto, già a partire dalla denominazione Cosa Nostra” e che “dopo le stragi di Capaci e di via d’Amelio, incominciò a parlare anche di Andreotti”.
Rispondendo ad altre domande, GianCarlo Caselli si è detto perplesso sulla proliferazione di fiction sulla mafia: bisogna stare molto attenti per evitare il rischio che in qualche modo dei mafiosi possano apparire in una luce positiva. Due film l’hanno ben impressionato: “Cento passi” e “La mafia uccide solo d’estate”.
La mafia… in realtà sono tante le mafie esistenti: quella siciliana, quella pugliese (Sacra Corona Unita, in forte espansione), quella calabrese (la ‘ndrangheta), quella campana (la camorra), tutte con “germinazioni” arrivate anche al centro-nord; “Mafia capitale” è “mafia a tutti gli effetti”, poi la mafia nigeriana, quella proveniente da alcuni Paesi dell’Est europeo, ecc… La mafia però oggi tende a essere ‘silente’, preferisce trafficare nell’ombra, non uccide più come prima (salvo che nel caso della camorra)
Ci sono pure le mafie agroalimentari, che producono Fernet mafiosi, vini mafiosi, perfino - come ha rilevato ancora Caselli - “brand schifosi utilizzati – come in Spagna – per catene di ristoranti mafiosi”.
Da ultimo - prima di raccontare ai tanti studenti rimasti per salutarlo altri episodi molto significativi e perfin grotteschi della sua vita ‘blindata’ a Palermo - Caselli, interpellato sui magistrati in politica, ha osservato che essi sono pur sempre “cittadini a tutti gli effetti”: i problemi nascono soprattutto quando, conclusa la stagione politica, vogliono rientrare nella professione”.
DECIMO CONFRONTO ACCATTOLI-RUSCONI: MERCOLEDI' 21 MARZO 2018 A ROMA, PRESSO LA FONDAZIONE LUIGI EINAUDI
Il decimo confronto tra Luigi Accattoli e Giuseppe Rusconi su papa Francesco si svolgerà mercoledì 21 marzo 2018 a Roma con inizio alle ore 18.00, presso la fondazione Luigi Einaudi, piazzale delle Medaglie d'Oro 44. La formula sarà diversa dal consueto: dieci domande su altrettanti aspetti del pontificato bergogliano poste dal moderatore Giuseppe Di Leo (Radio Radicale), ciascuna con tre minuti di risposta a testa. Prevedibile uno spazio per le domande del pubblico. Ingresso libero.