Ricerca

    RODRIGUEZ MARADIAGA: NON SONO UN GOLPISTA

    ROSSOPORPORA DI SETTEMBRE 2009 SUL 'CONSULENTE RE ONLINE' 

    L'arcivescovo salesiano di Tegucigalpa sulla complessa situazione honduregna. Nella rubrica si parla in particolare anche dei cardinali Urosa Savino, Bagnasco, Foley, Martini, Rodé, Schönborn, Sepe, Vallini, Vlk

    Il 4 luglio sugli schermi delle televisioni honduregne è apparso il cardinale Oscar Andrès Rodriguez Maradiaga. Ha letto con voce grave e in nome della Conferenza episcopale, un lungo comunicato, dal titolo Edificare a partire dalla crisi, riferito a quanto era successo sei giorni prima a Tegucigalpa: la deposizione ed espulsione dal Paese del presidente Josè Manuel Zelaya e l’assunzione del potere ad interim da parte di Roberto Micheletti con l’appoggio delle forze armate. I contenuti del comunicato episcopale, in cui si dice che “i tre poteri dello Stato, esecutivo, legislativo e giudiziario, sono in vigore legalmente e democraticamente in base a quanto prescrive la costituzione dell’Honduras” hanno suscitato sorpresa nel mondo e in non pochi cattolici, che conoscono il porporato salesiano come presidente della Caritas internazionale e l’hanno sempre considerato molto sensibile alle sofferenze dei diseredati. Contro il presule sono volate parole grosse, insulti di ogni genere, minacce di morte sui muri di Tegucigalpa (molte altre scritte – di un’altra parte di cattolici - invece inneggiavano al Cardenal): tanto è vero che viene tacciato anche in molti blog di essere un golpista, avendo enumerato delle giustificazioni a quello che gran parte delle agenzie planetarie e dei massmedia hanno ravvisato come un golpe militare reazionario. Si vedrà poi più oltre se sono stati lucidi nel ravvisare oppure magari viziati da pregiudizi di tipo chavista . Prima di continuare sarà bene anche evidenziare che il cardinale Rodriguez Maradiaga ha ricevuto una forte ed esplicita solidarietà da tutti i vescovi honduregni salvo uno (monsignor Santos, vescovo di Santa Rosa de Copan), dal Celam, dalle conferenze episcopali venezuelana, nicaraguense, boliviana, ecuadoriana (in prima linea dunque quelle che hanno in casa propria dittatori o aspiranti tali).

    Nell’ampia intervista concessa a La Vanguardia del 13 luglio, il presule sessantaseienne ha controbattuto in modo convincente alle accuse di essere un golpista (“E’ chiarissimo. Non sono un golpista”). All’intervistatore che gli chiedeva se non percepisse di aver rovinato la sua possibile carriera ecclesiastica criticando Zelaya, ha risposto: “Uno non deve pensare alla sua carriera ecclesiastica”, ma “secondo la verità, il bene”. Il Vaticano sapeva del documento della conferenza episcopale che giustificava il governo Micheletti? “Abbiamo spiegato quello che è successo, non abbiamo legittimato nessuno. (…) Prima di pronunciarci ci siamo informati adeguatamente. Poi abbiamo convocato la Conferenza episcopale. Ne è uscito il comunicato (…) che godeva dell’approvazione vaticana. Il nunzio ci accompagnò fino alla fine”.  Perché vi siete pronunciati contro Zelaya, quando tutti condannavano i golpisti? Ecco la risposta molto interessante del cardinale salesiano: “Per capire quanto è successo in Honduras non c’è che da analizzare quanto è accaduto dal 23 marzo. E’ stato tutto un percorso di violazione sistematica della Costituzione da parte del presidente Zelaya. L’episcopato si è riunito tre ore con lui. Gli suggerimmo di non convocare un referendum che avrebbe dato via libera alla sua rielezione, dato che ciò non era legale, divideva il Paese e violava la Magna Carta. Sarebbe stato come tagliarsi la testa. La Costituzione dice che chi fa tale proposta decade immediatamente dalla sua carica”. Conseguenza: “Quando Zelaya fu catturato dall’esercito non era più presidente della Repubblica”.

    Alcuni Paesi (come la Spagna) hanno ritirato i loro ambasciatori… “Dovevano informarsi meglio prima di decidere. Non avevano informazioni adeguate”. Il cardinale Rodriguez Maradiaga, ribadito che sarebbe meglio per Zelaya non tornare subito (“La polarizzazione è molto grande, ci sono armi in mano di civili”), ha evidenziato le minacce del dittatore venezuelano Chavez:   “Chavez dice che se c’è da fare un Vietnam, si fa; due, se ne fanno due; tre, se ne fanno tre”. L’arcivescovo di Tegucigalpa non si stupisce degli insulti lanciatigli da Chavez: “ Mi chiama pappagallo dell’Impero e pagliaccio vestito da cardinale. Però mi preoccupa di più quello che ha detto al popolo honduregno, che chi non sosteneva con l’Alleanza bolivariana era un traditore della patria o un idiota”. Ma il presidente Zelaya non aveva incominciato da ‘conservatore’? “Noi gli abbiamo parlato del pericolo suscitato dalle intromissioni di Chavez. Ma ci ha risposto: Non sono chavista, però mi serve il denaro di Chavez”. Conclusione del cardinale: “Ciò che voleva il presidente del Venezuela era controllare l’Honduras attraverso la continuità presidenziale di Zelaya”.

    Qui parliamo ancora del dittatore venezuelano (accolto tra l’altro trionfalmente dalla crème dell’ intellighenzia cinematografica italiana in quel di Venezia), ma a proposito di quel che fa all’interno del suo Paese. Era il 24 marzo del 2006 quando telefonò al cardinale Jorge Urosa Savino per complimentarsi con lui, cui da poco era stata imposta la berretta rossoporpora per mano di papa Benedetto XVI. Secondo il comunicato ufficiale del Ministero della Comunicazione e Informazione Chavez manifestava il suo “immenso giubilo” insieme con l’intero popolo venezuelano per la nomina del quinto porporato nella storia del Paese. Il cardinale in risposta inviò la sua benedizione. Poi, come è noto, i rapporti si sono molto deteriorati a causa degli atti sempre più ostili – oltre che in genere alla libertà di espressione - alla Chiesa cattolica compiuti dal governo del dittatore latino-americano. In un’intervista del 5 giugno di quest’anno a Radio Vaticana, l’arcivescovo di Caracas così rispondeva a una domanda sulla “situazione critica” nel Paese: “In effetti in Venezuela c’è una conflittualità, una grande polarizzazione, un processo di rivoluzione sociopolitico ed economico portato avanti dal governo. (…) La Chiesa sta facendo la sua opera di evangelizzazione (…) e vuole essere un fattore di unità “ nell’attuale difficile contingenza. Continuava il cardinale Urosa Savino: “E questo lo facciamo nonostante la grande ostilità di alcuni membri del governo verso l’episcopato. Cosa che noi certamente respingiamo, perché non abbiamo fatto assolutamente nulla né contro la Costituzione né contro le leggi”.

    Riguarda la scuola uno degli ultimi atti ostili del governo Chavez contro la Chiesa cattolica (da notare che il dittatore ha appena favorito la creazione di una Chiesa cattolica riformata da parte di cattolici e anglicani vicini alla teologia della Liberazione): infatti la “Nuova Legge organica sull’istruzione” approvata in gran fretta ad agosto dall’Assemblea nazionale (controllata da Chavez) esclude dalle scuole del Paese l’’insegnamento della religione cattolica. La legge, illustrata a fine luglio dal ministro dell’Istruzione venezuelano Hector Navarro, è ispirata secondo i suoi sostenitori “a una visione democratica basata su principi di libertà di coscienza, solidarietà, tolleranza, rispetto e giustizia”.

    In una presa di posizione dell’11 agosto, letta nelle chiese di Caracas il 15 e il 16, il cardinale arcivescovo evidenzia che la nuova legge contrasta con l’articolo 59 della Costituzione venezuelana che così suona: Il padre e la madre hanno il diritto a che i loro figli o figlie ricevano l’educazione religiosa in accordo con le loro convinzioni. Osserva qui il porporato sessantasettenne: “La religione cattolica è stata insegnata nelle scuole pubbliche venezuelane da tempo immemorabile ed è parte integrante della nostra identità nazionale”. Aggiungendo: “L’insegnamento della religione giova molto al popolo, rafforzando la pratica di una condotta morale fraterna e solidale”. Tant’è vero che anche il Libertador in persona, Simon Bolivar, riconosceva che la Moral sin la Religion carece de su fondamento. Dopo un appello ai deputati dell’Assemblea nazionale, il cardinale Urosa Savino si è rivolto a tutti i cattolici affermando: “Dio è importante per il Venezuela. Non lo si può cacciare dalle scuole! Davanti alla possibilità seria che l’educazione religiosa sia eliminata dall’orario scolastico in tutte le scuole, tanto pubbliche che private, anche in quelle della Chiesa, dobbiamo prendere coscienza della necessità e dell’importanza di tale insegnamento”. E’ chiaro che “la conoscenza e l’insegnamento della nostra fede sono un obbligo grave e un diritto fondamentale dei cattolici, di ogni famiglia, dell’intera comunità ecclesiale”. Perciò, “difendiamo i nostri diritti”!

    Da notare che alla fine di luglio il governo ha deciso di chiudere 34 radio conosciute per essere critiche nei confronti di Chavez: anche qui la protesta del cardinale Urosa Savino, insieme con la conferenza episcopale, si è levata ben alta. Per il nuovo nunzio apostolico, il diplomaticamente ben collaudato arcivescovo Pietro Parolin, una situazione che lo metterà a dura prova.    

    Dal 26 al 28 settembre papa Benedetto XVI ha compiuto nella Repubblica ceca (in una Praga sostanzialmente indifferente e in una Brno che invece l’ha accolto con calore) il primo viaggio apostolico internazionale dopo la pubblicazione dell’enciclica Caritas in Veritate. E’ andato in uno dei Paesi più secolarizzati d’Europa: i cattolici sono circa un terzo della popolazione, ma i praticanti sono un ventesimo dell’insieme dei cechi (meno a Praga, di più a Brno). Perchè una tanto devastante secolarizzazione? Risponde su Avvenire del 25 settembre il cardinale Miloslav Vlk: “Ci sono ragioni storiche che risalgono ai tempi di Jan Hus, il riformatore boemo finito sul rogo cui venivano condannati gli eretici. Poi ci fu la Guerra dei Trent’Anni, che acuì i contrasti religiosi, quindi il lungo dominio degli Asburgo e la supposta complicità della Chiesa cattolica nel soffocare le aspirazioni nazionaliste. In realtà molti sacerdoti, continuando a predicare nella lingua ceca, contribuirono a salvare l’identità popolare” (NdR: può essere interessante, a proposito della Casa d’Asburgo, leggere – qui di seguito – che cosa ne pensi il cardinale Franc Rodé, che ha commemorato il beato Carlo).

    Per il cardinale Vlk “l’idea che Chiesa e nazione fossero in netto contrasto venne poi ripresa e propagandata dopo la Prima guerra mondiale e più tardi anche dai comunisti”. Non si può però negare che cattolici e non cattolici combatterono insieme nei decenni prima del crollo del Muro la stessa battaglia contro il regime….D’accordo, risponde il settantasettenne arcivescovo di Praga (già lavavetri negli anni bui dell’oppressione comunista), “La Chiesa cattolica è stata protagonista delle battaglie per la libertà alla fine del comunismo”. Tuttavia “raggiunto l’obiettivo, la politica ha preso un’altra strada, concentrandosi sulle trasformazioni dell’economia e dimenticando quella che io chiamo la necessaria trasformazione del cuore”. Certo è che “oggi i sentimenti anti-religiosi si rinnovano nel tentativo di ridurre la questione dei rapporti tra Stato e Chiesa al problema dei beni ecclesiastici, come a dire che la Chiesa vuole il potere. Non è così.”. Problema annoso quest’ultimo, che nessun governo fin qui ha voluto risolvere… “Noi abbiamo chiesto la restituzione di tutti i beni confiscati alla Chiesa nel 1848 e ci siamo dichiarati disponibili ad accettare meccanismi di compensazione finanziaria che garantiscano il funzionamento delle nostre istituzioni”. Però, dopo diversi tentativi falliti, “siamo di nuovo al punto di partenza”.

    Il cardinale Vlk non è ottimista sulla risoluzione del problema: “La Repubblica ceca si trova in uno stato di grande confusione. E la Chiesa è oggetto di tanti pregiudizi”. Ad esempio “il nostro presidente Vaclav Klaus, quand’era primo ministro negli Anni Novanta, definì spregiativamente la Chiesa come un club turistico”. E tuttavia, “in questo quadro nerissimo, ecco che adesso arriva una figura bianca e luminosa che, senza imporre nulla, parlerà delle cose più importanti che riguardano la vita degli uomini e della società. E richiamerà i credenti a essere meno timidi e ad avere più coraggio, testimoniando il Vangelo in una società secolarizzata che ha bisogno di toccare con mano e di fare esperienza della novità cristiana”.  

    Il beato Carlo d’Asburgo è stato ricordato ad Anversa 19 settembre, nel giorno della sua festa, dal cardinale sloveno Franc Rodè. Che, nell’omelia della celebrazione eucaristica, ha evidenziato come già da piccolo l’ultimo imperatore asburgico “si distinse per il suo carattere affabile e per un vivissimo senso di compassione verso i poveri e i sofferenti”. Carlo d’Asburgo era “un uomo di una pietà profonda”; divenuto imperatore nel giorno della morte di Francesco Giuseppe (21 novembre 1916), operò – purtroppo invano - per la pace, accogliendo l’appello di Benedetto XV a porre fine all’inutile strage.

    Nella seconda parte dell’omelia il settantacinquenne cardinale Rodé estende il suo elogio all’intera dinastia asburgica. “Per secoli la casa d’Austria – ha rilevato il prefetto della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata –ha incarnato il principio dell’impero cristiano, unendo, come in una grande famiglia, i popoli dell’Europa centrale”. Ai nostri giorni “si tratta di riconoscere il valore esemplare di questa civilizzazione”, che “potrebbe bene servire da modello all’Europa nel suo processo di unificazione, ricordandoci che l’economia e la tecnocrazia – da sole – non bastano a dare un fondamento solido alla sua costruzione”. Citando alcune annotazioni di Hugo von Hoffmannstahl e Claudio Magris, il presule nato a Lubliana osserva che gli Asburgo “hanno esercitato un’azione altamente educatrice dei loro popoli”, dato che ponevano come “valori supremi il senso del dovere e dell’onore e lo spirito di servizio”.

    Tanto che – ha continuato il cardinale Rodé – “sento il bisogno di esprimere la mia gratitudine alla casa d’Austria per una ragione particolare che tocca non solo la mia famiglia e il popolo sloveno, ma anche una larga parte dell’Europa centrale”. Quale? “Quando nei primi decenni del XVI secolo apparve in Germania un movimento di ribellione contro il Papa che minacciava l’unità della Chiesa, il giovane imperatore Carlo V d’Asburgo si schierò subito dalla parte del Pontefice”. Così i suoi successori. Considera il porporato: “Rompere con Roma, proclamandosi capi delle Chiese regionali e appropriandosi dei beni della Chiesa, sarebbe stato tanto più naturale, dato che il protestantesimo era di origine germanica e si presentava come il punto di riferimento di una nuova identità dei popoli germanici dopo la rottura con Roma.” Insomma “la casa degli Asburgo è restata incrollabilmente alla fede cattolica e al Successore di Pietro”. Ed “è questa fermezza, questa misteriosa fedeltà che ha salvato la fede cattolica dei popoli dell’Europa centrale. E’ giusto dirlo e ringraziare questa nobile famiglia.”   

    Il 23 agosto sono stati festeggiati i mille anni della diocesi di Pécs (400mila i cattolici), fondata da santo Stefano, re d’Ungheria. Per la lieta e importante ricorrenza il Papa si è fatto rappresentare dal cardinale Christoph Schönborn. Nella lettera pontificia di incarico del 5 agosto si rilevava lo stretto rapporto tra cattolicesimo e storia del popolo ungherese. Nell’omelia della celebrazione eucaristica l’arcivescovo di Vienna, riandando alla storia della diocesi millenaria non ha approfondito “i 140 anni di dominio turco e nemmeno il quarantennio di oppressione comunista” né “lo splendore dell’età barocca e l’odierna miseria post-comunista”: tutto ciò – ha detto – “lo conoscete meglio di me”.

    Il porporato sessantaquattrenne ha voluto invece evidenziare come “oggi non ci sarebbe nessun cristianesimo, se gli uomini di un tempo non avessero preso sul serio l’invito di Cristo: il battesimo è la fonte della Cristianità!” Il cardinale domenicano ha qui ricordato la domanda posta ai francesi nel 1980 da Giovanni Paolo II: France, qu’as-tu fait de ton Baptême? E ha aggiunto: “Non dovremmo oggi porre di nuovo la domanda: “Ungheria, che cosa hai fatto del tuo Battesimo?” La stessa domanda vale anche per noi tutti, non in tono accusatorio né saccente, tuttavia addolorato: “Europa, che cosa hai fatto del tuo Battesimo?” I tempi nostri sono apparentemente tempi amari. Ci potremmo chiedere che ne sarà dell’Ungheria cristiana, dell’Europa cristiana. Forse quest’ultima “non si è già allontanata mille miglia dalle sue radici cristiane? Ungheria ed Europa non sono oggi “le vittime di una secolarizzazione post-comunista e post-capitalista, che non lascia scampo all’ideale di un’Europa cristiana?Non sta per diventare il cristianesimo in Ungheria, in Europa, un fenomeno marginale?”

    Eppure nel Vecchio Testamento si legge che il popolo ebraico è stato scelto non perché fosse “particolarmente potente, grande, buono, forte”. Un popolo che era saldo solo “nella speranza verso Dio”. Oggi la storia si ripete: “Noi siamo entrati nel XXI indeboliti, scoraggiati, irrisi, impoveriti, per niente carichi di gloria”. I fatti ci dicono che “non siamo usciti vincitori e trionfanti dalla svolta del 1989”: al contrario “la quotidianità nella nuova libertà si dimostra piena di fatica e sofferenza”. Tuttavia – ha continuato il cardinale Schönborn – “credo che il Signore voglia per noi preparare qualcosa di nuovo: Non riandate più nei sogni alla grandezza passata! Il popolo di Dio deve essere un popolo scoraggiato, povero”. Pronto comunque per l’annuncio che Dio gli chiede. Perciò “la diocesi di Pécs, mille anni dopo la sua fondazione, di nuovo e intensamente sente la chiamata di Gesù alla missione: Andate e predicate! Non abbiate paura!”. Il millenario è un’occasione per “gettare ancora le reti: Duc in altum!”. Erano presenti nella cattedrale di Pécs  il primate d’Ungheria cardinale Peter Erdő e quasi tutti i vescovi ungheresi.

    Tra mille lungaggini laiciste, cui danno corpo le inopinate esternazioni di alte cariche istituzionali e di alcuni politici sedicenti cattolici, prosegue faticosamente il suo iter a Montecitorio la legge sul fine-vita. Se ne è occupato il 21 settembre – nella prolusione di apertura del Consiglio permanente della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco. Il presidente dei vescovi italiani, preso atto che sul tema “abbiamo dovuto purtroppo registrare in questi ultimi giorni un pronunciamento quanto mai ambiguo (NdR: Chi ha orecchi per intendere, intenda), ribadisce che “attendiamo una legge che possa scongiurare nel nostro Paese altre situazioni tragiche come quella di Eluana” (NdR: Tutti ricorderanno quel che è successo, per la prima volta dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, a febbraio nella clinica di Udine e le firme messe e non messe nella Roma politica). Precisa il porporato sessantaseienne: “Nel rispetto delle prerogative del Parlamento, ci limitiamo ad auspicare che un provvedimento, il migliore possibile, possa essere quanto prima varato a protezione e garanzia di una categoria di soggetti tra i più deboli della nostra società, senza lasciarsi fuorviare da pronunciamenti discutibili”. Il cardinale Bagnasco riconosce poi che “il lavoro già compiuto al Senato è prezioso, perché dice la volontà di assicurare l’indispensabile nutrimento vitale a chiunque, quale che sia la condizione di consapevolezza oggettiva”.

    Anche sulla pillola abortiva RU486, il presidente della Cei rileva che il via libera dell’Agenzia del farmaco “è una decisione solo apparentemente rispettosa della libertà, in quanto annulla i diritti di una delle parti in causa, la più indifesa”. Non solo: “Anche nei confronti della donna, il principio di precauzione poteva e doveva suggerire altre cautele”. Il alla pillola abortiva rischia di “banalizzare ulteriormente il valore della vita, con l’incremento di una mentalità secondo cui l’aborto stesso finisce per essere considerato un anticoncezionale”. Sull’argomento “si è in attesa di quel dibattito parlamentare che potrà consentire di arrivare a una maggiore verità sul farmaco stesso, e su ciò che ha già obiettivamente causato anche in varie altre nazioni”. Il dibattito in Senato è stato approvato, ma già rinviato di qualche settimana per lo scontro violento all’interno dell’opposizione. Il cardinale Bagnasco, in un’intervista ad Avvenire del 2 agosto (due giorni dopo la decisione dell’Agenzia del farmaco), aveva rilevato tra l’altro che sul fronte della cultura della vita si attendeva dai laici cattolici  “una voce più coraggiosa, chiara, argomentata a tutti i livelli”. E aveva ribadito che “sui temi della vita umana, decisivi, non si può procedere per mediazioni”, perché “su valori fondamentali mediare significa negare”. Infatti “la vita non è opinione: è un valore invalicabile, sul quale non si può reclamare il vecchio argomento di un’asserita indipendenza rispetto al magistero della Chiesa”, dato che “l’autonomia di cui parla il Concilio non è assoluta ma relativa a una coscienza retta e formata”.

    Sabato 11 luglio nella cattedrale di San Giovanni in Laterano il cardinale Agostino Vallini ha ordinato due nuovi vescovi, monsignor Giuseppe Marciante (ausiliare per il settore Est) e monsignor Guerino Di Tora (ausiliare per il settore Nord). Nell’omelia, densa di sostanza, il porporato sessantanovenne ha indicato ai neo-eletti le caratteristiche fondamentali di un vescovo: “L’immagine biblica che da oggi esprimerà meglio e più intensamente la vostra vita è certamente quella del pastore”. Che significa essere pastore? “Vuol dire spendersi senza altro interesse, senza calcolo umano, senza anteporre se stesso e le proprie idee; vuol dire percorrere la stessa strada del Maestro fino al dono totale di sé”. Non facile certo…. “Naturalmente – ha osservato il cardinale Vicario – si tratta di un ideale altissimo, mai completamente raggiunto, ma verso cui tendere con convinzione e perseveranza, sostenuto dalla grazia di Dio”.

    Monsignor Marciante è stato parroco di san Romano, monsignor di Tora di San Policarpo prima di dirigere la Caritas romana. Ambedue sanno della difficoltà odierne dell’annuncio della Parola: “Voi ben sapete – ha detto a tale proposito il cardinale Vallini – quanto Roma abbia bisogno di un rinnovato impegno bell’annuncio del Vangelo per far crescere e rinvigorire l’appartenenza ecclesiale del nostro popolo e la corresponsabilità pastorale, particolarmente dei fedeli laici”. Come rilevava recentemente papa Benedetto XVI a San Giovanni in Laterano,  “non pochi battezzati hanno smarrito la via della Chiesa e quelli che non sono cristiani non conoscono la bellezza della nostra fede”. Perciò, ha osservato il cardinale Vicario, “a tutti siamo mandati, portando nel nostro cuore di pastori insieme con i buoni fedeli quanti sono lontani, indifferenti e quanti non si sentono di fare il passo della fede, ma sono sinceri cercatori di Dio”.

    Tra le altre caratteristiche proprie “anzitutto” del vescovo c’è “il dovere cristiano di compiere opere di misericordia corporale e spirituale”. Ecco qui l’invito del cardinale Vallini: “Il vostro stile di vita sobria ed accogliente, come si addice a dei pastori, diventi testimonianza attraente del farsi prossimo, così che ciascun cristiano a Roma sia consapevole che ogni uomo gli appartiene come fratello”. Dobbiamo essere convinti che “i vecchi e i nuovi poveri ci appartengono e non dobbiamo darci pace perché non solo a chi bussa alle porte delle nostre chiese, ma a chiunque è provato dalla sofferenza, non vengano a mancare – per quanto ci è possibile – aiuto e sostegno. (…) La passione per i poveri sia, cari monsignor Guerino e monsignor Giuseppe, un tratto caratteristico del vostro episcopato”.

    Il 19 settembre il sangue di San Gennaro, secondo tradizione, si è liquefatto nella cattedrale di Napoli e il cardinale Crescenzio Sepe ha potuto alzare dall’altare la teca con le due ampolle contenenti il sangue del patrono partenopeo, rilevando che egli “anche quest’anno ha voluto mostrare la sua particolare e forte vicinanza al popolo napoletano”. L’avvenimento, ha poi osservato il porporato sessantaseienne, “stimola a fare qualche considerazione sul momento storico che stiamo vivendo”, in cui “la nostra storia cristiana e civile è tanto viva e feconda da non rassegnarsi ad accettare la polvere e l’oblio degli archivi”. Certo la storia di Napoli “non può evitare la contaminazione di una cronaca quotidiana che spesso la deprime e la immiserisce”. Il fatto è che “la sua gente, in qualche modo, è tenuta in ostaggio”. E “il giro di catene più arrogante è quello con cui la criminalità – organizzata o no, costituita in sistema o in vecchie e nuove aggregazioni camorristiche – tenta di strangolare ogni sussulto di coraggio e di sporcare di paura anche i giorni della speranza”. E’ vero tuttavia che “il no alla violenza può essere espresso in molti modi e, se le parole servono perché aiutano a mantenere vigile l’attenzione e a dare coraggio, ancora più eloquenti sono le realizzazioni e i passi concreti, utili a smantellare e a mettere in crisi tutti i muri della prepotenza e della indifferenza, innalzati contro la costruzione del bene comune”. In tale contesto “la Chiesa di Napoli vuole fare la propria parte” promuovendo “un’iniziativa concreta”: è “l’operazione microcredito, la Banca dei poveri, che attraverso il Fondo Spes consente di aiutare chi ha idee e progetti, ma non ha le risorse economiche per realizzarli”.  Il Fondo, ha rilevato l’arcivescovo di Napoli, “sarà la nostra testimonianza a favore di chi soffre ma sarà anche, più che un’opportunità, un modello offerto a tutti coloro, credenti o non credenti, che in questa terra, (…) vorranno lavorare insieme ed essere disponibili ad uscire allo scoperto, fuori da ogni forma di individualismo esasperato e di malata rassegnazione”. In sintesi chi intende avviare una nuova attività per aiutare la propria famiglia o dare una possibilità ai giovani, potrà avere in prestito fino a ventimila euro (a tasso zero, restituibili in alcuni anni). Deciderà sui beneficiari un gruppo di esperti che collaborano con l’arcidiocesi.

       

    Da un paio d’anni il cardinale John Patrick Foley è Gran Maestro dell’Ordine dei Cavalieri del Santo Sepolcro. In tale veste ha rilasciato un’ampia intervista alla rivista Terrasanta 1/09, sotto il titolo assai significativo “Difendiamo le pietre vive”. A proposito dell’Ordine che presiede, il porporato statunitense osserva che naturalmente si presenta con modalità molto diverse da quello originario, fondato nel 1099: “Non vi è alcun aspetto militare, eccetto le uniformi che i membri indossano. Essi non portano armi e il loro è un messaggio di pace e di assistenza”. Se i Cavalieri del Santo Sepolcro non hanno collegamenti con i Templari, “sodalizio che venne soppresso e non esiste più”, intensi sono i rapporti con il Sovrano Militare Ordine di Malta, fondati su “vicendevole rispetto e considerazione”. L’Ordine presieduto dal presidente emerito del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni sociali “per statuto deve assistere il patriarcato latino di Gerusalemme”, il che si traduce nel “sostegno a più di 60 parrocchie, a una quarantina di scuole e all’Università di Betlemme”. In più a “ospedali, centri di servizi sociali e cliniche”. Per il settantaquattrenne cardinale “i cristiani in Terra Santa sono spesso una minoranza nella minoranza”, perché “sono minoranza all’interno della comunità palestinese ed anche in Giordania”. E’ in quest’ultimo Paese che, osserva il porporato, “i cristiani ottengono un trattamento migliore”, perché “Israele è uno Stato ebraico e naturalmente la preferenza è data ai cittadini di fede giudaica”. In Palestina invece “bisogna fare i conti con l’assenza di libertà di movimento che colpisce tutti i palestinesi”. Siccome poi “i cristiani sono più istruiti, trovano migliori opportunità fuori dalla loro terra”. In sintesi “pare esistere una linea politica che induce entrambi i governi a non dispiacersi della diminuzione dei cristiani”. Ciò, nota amareggiato il cardinale Foley, “per noi è una tragedia, perché i santuari in Terra Santa non possono diventare puri e semplici musei”.  

    Dal 28 giugno il cardinale Carlo Maria Martini ha incominciato a dialogare con i lettori del Corriere della Sera. Ogni ultima domenica del mese il quotidiano milanese mette a disposizione dell’arcivescovo emerito della città una pagina, in cui egli risponde a lettere, messaggi, domande su vari temi  di fondo, non necessariamente legati all’attualità. Lo stesso 28 giugno il porporato ottantaduenne spiega sulla prima pagina del giornale i motivi del suo assenso alla richiesta del direttore Ferruccio De Bortoli. A dire il vero – scrive il presule gesuita – “l’offerta (…) ha creato in me un certo imbarazzo e smarrimento”. Perché? “Mi spaventa anzitutto il piccolo numero di questioni che potrò trattare, se paragonato con il grande numero delle lettere ricevute. Mi dispiace pensare che c’è chi rimarrà senza risposta, almeno da parte mia. Mi chiedo poi se sarò capace di rispondere a molte delle interrogazioni”. Si chiede poi il cardinale: “Ho io davvero le conoscenze necessarie per soddisfare tante giuste richieste?” Ancora: “Soprattutto mi angustia il problema: cosa vuol dire rispondere a una domanda?”. In effetti “molte volte chi interroga lo fa con la speranza di avere confermato il suo parere; oppure cerca una risposta di tipo oracolare”. Secondo il presule “non sono molti (…) coloro che con Sant’Agostino nel suo De Magistro, sono convinti che non si dà vera risposta se essa non nasce dal di dentro delle persone, se non emerge dalla propria mente e dal proprio cuore”. Per Sant’Agostino inoltre “nessuna persona può insegnare alcunché a un’altra. E’ soltanto possibile far risuonare dall’esterno dei segni che, se approfonditi dalla persona stessa, la aiutano a mettersi con autenticità di fronte a ciò che cerca”. Per tutto questo, rileva il cardinale Martini, “inizio la mia collaborazione con un certo scetticismo, con la persuasione che essa deluderà molti”. E tuttavia “se almeno potessi io imparare qualche cosa, mi riterrò soddisfatto e premiato del piccolo sforzo che ci metterò; soprattutto su una cosa, nel non nascondere mai una verità scomoda”.  Pro veritate adversa diligere è il motto episcopale dell’arcivescovo emerito di Milano, che così conclude: “Oggi la negazione della verità assume spesso la figura dell’omissione voluta e colpevole, condizionata dalla paura o dall’interesse, o anche dalla paciosità: mi guardi il Signore da queste trappole!”  Nella pagina il cardinale Martini parla in particolare di bugia (“Occorre penetrare nel significato profondo della menzogna. Ne facciamo esperienza anche in questi giorni”) e di dolore e malattia (“Talvolta mi sveglio di notte con la sensazione della morte vicina, specialmente quando il respiro sembra mancare”). Riflessione sullo stesso argomento: “Noi non siamo mai abbastanza pronti per morire. Anch’io non so se in quel momento rimarrò in pace o sarò tentato di ribellarmi a Dio e al destino. Ma mi affido al Padre, che guida ogni istante della mia vita, quindi anche quello della morte, e confido in Gesù che morì dicendo: Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”.

    Ricerca