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    TETTAMANZI, PASTORE DI MILANO

    ROSSOPORPORA DI DICEMBRE 2009

    Lo stimolante discorso dell'arcivescovo di Milano per Sant'Ambrogio. Le gravi preoccupazioni per l'Italia del cardinale Bagnasco. In difesa della famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna i cardinali Caffarra e Herranz. Il cardinal Poupard sul linguaggio del cristianesimo, il confratello Ruini sulla laicità. Giovanni Battista Re evidenzia i legami tra Paolo VI e Benedetto XVI. I novant'anni del cardinale Spidlik. Il telegramma del cardinale Kasper per la morte del patriarca Pavle 

     

    Ha fatto molto rumore il discorso che anche quest’anno il cardinale Dionigi Tettamanzi ha rivolto alla Città per la festa del patrono Sant’Ambrogio. Purtroppo tale gran baccano è nato – come capita spesso ormai alle nostre latitudini – dall’estrapolazione di brani di frase, perdipiù mal interpretati. Rileggendo serenamente il discorso, non riusciamo a trovarvi elementi tali da giustificare chi ha etichettato l’arcivescovo come una sorta di ‘porpora rossa’ in combutta con il nemico. Vi riscontriamo invece le giuste, doverose preoccupazioni di un pastore che ha a cuore il bene della sua città e la stimola a non dimenticare la concretizzazione dei valori umani e cristiani che l’hanno fatta grande. Il che non significa che tutti e in tutte le occasioni si debba essere sempre d’accordo con il cardinale: ma stavolta ci pare che le polemiche abbiano proprio sbagliato bersaglio.

     

    Come arricchire la gloriosa storia di Milano?si chiede il cardinale all’inizio del suo discorso: “Nessuno di noi pensa che per perpetuare nel futuro la grandezza di Milano sia sufficiente edificare qualche monumento, questa o quell’altra infrastruttura, abbellirla con qualche opera d’arte”. Certo “si tratta di interventi utili, ma – sappiamo – da sempre sono gli abitanti la ricchezza più grande di una città”. Stiamo contribuendo noi a rendere grande Milano? Così risponde il porporato settantacinquenne:” Milano con il cuore in mano, solidarismo ambrosiano: queste ed altre espressioni proverbiali, da sole, lasciano intendere quale sia l’eredità migliore che ci è stata consegnata”. E’ la “solidarietà”, di cui sono “splendida testimonianza tante istituzioni caritative”. E’ proprio “la pratica straordinaria della solidarietà che ha reso grande nei secoli Milano”. Ed è proprio “sulla solidarietà che dobbiamo misurare ancora oggi l’autenticità della grandezza della nostra Città”. Dobbiamo capire che “la solidarietà è inseparabile dalla giustizia e per questo ha una destinazione propriamente sociale”.

    Milano oggi è solidale? Osserva il cardinale Tettamanzi che “è difficile rispondere con poche parole”, perché anche Milano “è una città composita, non ha un aspetto unico ed è inevitabile che sia così per una metropoli moderna”.  Perciò si può dire che Milano ad esempio “è solidale con i bambini e il loro futuro se sono sufficienti gli asioli nido, le scuole materne, i parchi gioco”. Con i giovani “se sa farsi carico delle loro domande e delle loro tensioni, se sa ascoltarli e guardarli con stima, fiducia, amore sincero”. Si chiede il porporato se sia solidarietà vera “offrire ai giovani che si affacciano al mondo del lavoro forme di impiego quasi sempre precarie, quasi a voler approfittare della loro condizione, sfruttando le loro necessità”.

    Una solidarietà “autentica” la offrono “tutti i lavoratori che compiono bene il proprio dovere”, chi pratica il volontariato, gli imprenditori “che sfidano la crisi economica affrontando sacrifici pur di salvaguardare il posto di lavoro dei propri dipendenti e di non far mancare il sostentamento alle famiglie, i ricercatori che sono attivi per migliorare le cure con cui combattere la malattia, chi “opera per migliorare le condizioni di vita degli immigrati, per coniugare solidarietà e legalità”.

    Il cardinale Tettamanzi evidenzia poi il valore sociale della sobrietà: “La sobrietà è possibile, in essa c’è il segreto della vita buona e bella, anche se il cammino per arrivarvi è difficile e chiede che si cambi lo stile di vita”. Negli ultimi anni “ci siamo lasciati andare a una cultura dell’eccesso, dell’esagerazione”. Invece la sobrietà “ci aiuta a costruire la giustizia, perché decide, sceglie e agisce secondo la giusta misura”. In tal senso “la sobrietà è una via privilegiata che ci conduce alla solidarietà”: perciò “solo chi è sobrio può essere veramente solidale”.  Spesso si obietta che “l’industria e il terziario tengono solo se ci sono consumi”. Risponde il cardinale: “Sobrietà non significa non consumare e non produrre. E’ piuttosto utilizzare non in un’ottica di spreco, bensì di saggio impiego, finalizzando così la produzione e i servizi ai veri bisogni dei singoli, per crescere nel benessere condiviso” Bisogna essere consapevoli “che le risorse sono limitate e che vanno quindi ben utilizzate”. In sintesi “la sobrietà non danneggia l’economia, ma è a favore di una sua realizzazione sapiente, poiché mette al centro la persona e le sue esigenze più vere”.

    In tale prospettiva Milano “deve considerare le opportunità legate a Expo 2015: “La speranza è che questo evento possa far da traino per un ripensamento globale di Milano in termini innovativi, economicamente solidi e promettenti, aperti a una visione profondamente etica e responsabile”. La sobrietà “può rinverdire” la Milano “città del fare”, eliminando “tutto ciò che è superficiale, vuota apparenza, perdita di tempo e spreco di risorse”. A questo proposito, si chiede il porporato lombardo se siano adeguate “le campagne di comunicazione e di immagine”, che nascondono “la consistenza reale dei problemi” de facto irrisolti. La festa di Sant’Ambrogio, rileva poi il cardinale Tettamanzi, “può suonare come appello a un sussulto di moralità e spiritualità nei nostri stili di vita”. Siccome Milano “è interessata  - e lo sarà sempre più – da progetti di realizzazione di grandi opere che esigono ingenti quantità di denaro e per le quali sono possibili interferenze e infiltrazioni di criminalità organizzata, divengono ancora più urgenti da parte di tutti – e specialmente di chi ha maggiori responsabilità – il rispetto di norme semplici, chiare ed efficaci, il confronto con la coscienza morale, la rettitudine nell’agire, la gestione corretta del denaro pubblico”. Vedremo a bocce ferme se l’appello del cardinale sarà stato ascoltato.

    Nell’omelia tenuta il 16 dicembre nella chiesetta di san Gregorio Nazianzeno durante la tradizionale santa messa per i parlamentari in occasione del Natale il cardinale Angelo Bagnasco non poteva non riferirsi anche al clima politico torbido che vive oggi l’Italia. Lo ha fatto dicendo tra l’altro: “Il messaggio del Natale ritorna in tutta la sua bellezza e urgenza. Infatti esso sembra stridere rispetto al clima che stiamo vivendo come Paese. Come già è stato rilevato da voci autorevoli (Ndr: chiaro il riferimento al pur controverso presidente della Repubblica Giorgio Napolitano), l’aria di odio personale avvelena la politica, fomenta la rissa, e sfocia in gravi e inaccettabili episodi di violenza”. Però “la gente è stanca e non merita questo”. Osserva qui il presidente della Cei: “Senza un’evidente, onesta e concreta svolta si alimenta il senso di insicurezza, diminuisce la fiducia nelle Istituzioni, si scoraggia la partecipazione alla vita del Paese, si indebolisce la coesione sociale sempre doverosa e tanto più necessaria nei momenti di particolare difficoltà”. Una supplica: “Preghiamo perché i nuovi maestri del sospetto e del risentimento depongano le parole violente che, ripetute, risuscitano ombre e mostri passati”. In ogni caso “il nostro popolo – ha proseguito il porporato sessantaseienne – merita il meglio da tutti i responsabili, a qualunque livello e titolo, perché (al di fuori dei riflettori che a volte snaturano ed enfatizzano) porta avanti i propri doveri quotidiani con grande dignità, senso del dovere, con una serietà morale e capacità professionale che fanno onore al Paese in Italia e nel mondo”. Conclusione: “Questo patrimonio non vogliamo sperperare mai, né possiamo permettere che si annebbi dietro a settarismi che nulla hanno a che vedere con la dialettica culturale, politica e sociale, Questa mira a costruire, quella vuole distruggere”.

    La giunta regionale dell’Emilia-Romagna vuole porre sullo stesso piano individui, famiglie e convivenze nell’accesso dei servizi pubblici locali. Lo si legge dal comma 3 dell’articolo 42 del progetto di legge pubblicato nel supplemento del Bollettino ufficiale dell’11 novembre 2009. Contro tale equiparazione si è levata ufficialmente il primo dicembre la voce del cardinale Carlo Caffarra, che ha steso una lettera ad hoc all’indirizzo di presidente, assessori e consiglieri regionali. Rileva subito l’arcivescovo di Bologna che laddove il matrimonio e la famiglia su di esso fondata sono erosi, “la società è esposta alle più gravi patologie sociali”. E’ questo il caso “quando si pongono atti che obiettivamente possono far diminuire la stima, soprattutto nella coscienza delle giovani generazioni, dell’istituto del matrimonio e della famiglia”. In effetti “ciò accadrebbe se al matrimonio e alla famiglia, così come sono costituzionalmente riconosciuti, venissero pubblicamente equiparate convivenze di natura diversa”. Sarebbe discriminatorio non approvare norme del genere? No, risponde il porporato settantunenne: “Se è ingiusto trattare in modo diverso gli uguali, è ugualmente ingiusto trattare in modo uguale i diversi”. Approvando tale norma, continua il cardinale Caffarra, si darebbe “un contributo alla credenza falsa e socialmente distruttiva che il matrimonio sia una mera convenzione sociale che può essere ridefinita ogni volta che così decida una maggioranza parlamentare”. Ricorda poi il porporato che “il matrimonio è una realtà oggettiva sussistente in una unione pubblica tra un uomo e una donna, il cui significato intrinseco è dato dalla sua capacità di generare, promuovere e proteggere la vita”.

    Scrive poi l’arcivescovo di Bologna, sempre rivolgendosi agli Onorevoli Signori: “Come cittadino, cristiano e vescovo, rispetto la vostra autorità; so che siamo liberi in forza della sottomissione alle leggi; so che il vivere nella democrazia è stato anche nella nostra Regione frutto del sacrificio della vita di tante persone, sacerdoti compresi, la cui memoria deve essere custodita”. Ma (e qui l’affermazione è certo di rilievo) “con la stessa forza e convinzione vi dico che vi possono essere leggi gravemente ingiuste, come sarebbe questo comma se venisse approvato, che non meritano di essere rispettate”. Il cardinale Caffarra chiede infine ai destinatari di accogliere l’appello, “di riflettere seriamente prima di prendere una decisione che potrebbe a lungo termine risultare devastante per la nostra Regione”. In ogni caso “Dio vi giudicherà, anche chi non crede alla sua esistenza, se date a Cesare ciò che è di Dio stesso”.  

    Per restare in tema, di rapporti tra diritto e legge naturale (soprattutto a proposito di vita e famiglia) parla il cardinale Julian Herranz nella prolusione tenuta ad Anagni il 25 ottobre in occasione della settima edizione del Premio Bonifacio VIII. La riporta integralmente L’Osservatore Romano dello stesso giorno, sotto il titolo “la democrazia totalitaria”. Il porporato spagnolo esordisce dicendo “Di essere stato sempre interessato alla nobile figura del pontefice Benedetto Cajetani (…) notissimo anche nell’ambito dei rapporti tra Stato e Chiesa, tra ordine temporale e ordine spirituale, per la sua famosissima bolla Unam Sanctam del 18 novembre 1302”. Da lì lo spunto della prolusione, incentrata attorno alla “crisi della giustizia nell’ordinamento giuridico civile in rapporto all’ordine dei valori spirituali”. Il presidente emerito del Pontificio Consiglio per l’interpretazione dei testi legislativi constata che sia nel caso dei totalitarismi novecenteschi che in quello delle odierne “democrazie malate” un dato appare evidente: “la razionalità delle leggi non è più vincolata alla corrispondenza della norma con la natura umana, con la verità oggettiva sulla dignità dell’uomo, con i valori morali oggettivi e permanenti che invece il diritto dovrebbe difendere e tutelare”. Per quali motivi? “Per poter ordinare rettamente i comportamenti sociali, proteggere istituzioni basilari ed evitare il progressivo sviluppo di una società selvaggia”. Del resto, osserva il presule settantanovenne, “la società democratica – basta leggere senza pregiudizi perfino il Contratto sociale di Rousseau – è nata da una filosofia sociale che, nonostante tutti i suoi limiti e debolezze, non metteva affatto in dubbio l’esistenza di una verità oggettiva sulla persona umana e di universali valori morali da rispettare”. Tuttavia negli ultimi decenni “le ideologie libertarie, fondate sul relativismo morale, nel togliere alla democrazia il suo fondamento di principi e di valori oggettivi, hanno sfumato pericolosamente i limiti della razionalità e della legittimità delle leggi”. E’ così che “nelle leggi ordinarie di non pochi ordinamenti civili” si sta imponendo “il principio giuridico-positivo, frutto del relativismo morale, secondo cui in una società democratica la razionalità delle leggi dipenderebbe soltanto e unicamente da quello che la maggioranza dei voti decida che venga stabilito, permesso o proibito”. Insomma, ci troviamo qui confrontati con “quella che è stata giustamente chiamata una deriva ‘totalitaria’ della democrazia”. Che risposta dare a questo stato di cose? Per il cardinale Herranz “bisogna recuperare l’autentico concetto di libertà personale, che non può essere separato dalla verità oggettiva sulla persona umana; bisogna riallacciare la giustizia alla verità: alla verità sull’uomo e sulla donna; alla verità sull’inizio e sul valore della vita umana; alla verità sull’unico e possibile concetto di tolleranza e di ordine; alla verità infine sullo stesso concetto di legge, che deve sempre tutelare il bene comune della società e non presunti diritti personali o di gruppo di carattere arbitrario o voluttuario”.  

    In un’intervista rilasciata a Tempi del 2 novembre e posta sotto il titolo “Caduto l’Occidente, c’è da riconquistare il mondo”, il cardinale Paul Poupard spiega tra l’altro il motivo per cui duemila anni fa, “quando non c’era il vuoto religioso ma piuttosto una sovrabbondanza di religioni”, si è imposto il cristianesimo: “E’ avvenuto perché ha saputo rispondere alle domande fondamentali della gente comune come degli intellettuali. Nessun’altra religione ha saputo offrire risposte migliori”. Del resto diceva Tertulliano che il cristianesimo è bilingue: parla le lingue degli uomini per far comprendere il linguaggio di Dio”. Perciò, rileva il presidente emerito del Pontificio Consiglio della Cultura, “credo che il cristianesimo debba ritrovare questa capacità: saper parlare di Dio con il linguaggio degli uomini di oggi”. Ne ha tutte le possibilità, perché “il cristianesimo difende le persone, concrete”. In un altro passo, il porporato settantanovenne risponde a una domanda sui cristiani perseguitati: “Porre l’accento su questo dramma dell’età contemporanea non è mai abbastanza. Il fondamentalismo nasce dalla paura e dall’ignoranza, dall’indebolimento dell’identità. Ecco perché sto facendo tradurre in quasi tutte le lingue, compreso l’arabo, il mio ‘Dizionario delle religioni’: per aiutare a capire meglio il comportamento delle altre religioni, poiché il nucleo comune è il rispetto per Dio il creatore, per la creatura umana, per il creato”.

    In un’intervista del 5 novembre a Il sussidiario.net il cardinale Camillo Ruini parla del dialogo possibile tra credenti e non credenti in un momento storico come il nostro, caratterizzato da forti contrapposizioni ideologiche. Per il porporato settantottenne comunque “è già in atto” la ripresa di un serio dibattito culturale, che “naturalmente si articola in maniera diversa a seconda degli interlocutori”. Perché “non dobbiamo considerare i laici, nell’accezione di coloro che non si considerano in senso proprio appartenenti alla Chiesa, come un blocco monolitico e omogeneo”. Tale constatazione era già dell’allora cardinale Ratzinger che, “in un suo libro in dialogo con Marcello Pera” osservava che “gli atteggiamenti dei laici nei confronti della fede sono molto diversi”. E’ noto, rileva qui il presidente emerito della Cei, che “ci sono laici, ad esempio, che intendono la loro laicità come rifiuto di ogni ruolo pubblico della Chiesa e spesso anche come rifiuto di qualsiasi possibilità dell’esistenza di Dio”. Con quest’ultima categoria di laici “inevitabilmente il dialogo diventa un confronto critico, nel quale il terreno comune è difficile da trovare”. Per i credenti si tratta allora di “sostenere le ragioni della fede con quella generosità, pazienza e carità che sono sempre richieste al cristiano, ma anche con rigore e fermezza”. Una domanda anche sul ‘caso Englaro”: “Nel caso Englaro – osserva il presidente del Progetto culturale della Chiesa italiana – ci fu un aspetto molto grave. Eluana non aveva lasciato un testamento, ma questo è stato presupposto. Un fatto di una gravità enorme”. Questo “al di là delle questioni sul testamento biologico”.

    Di un “legame profondo” tra papa Montini e papa Ratzinger parla il cardinale Giovanni Battista Re in un’ampia intervista apparsa su L’Osservatore Romano del 4 novembre, nell’imminenza della visita di Benedetto XVI a Brescia e a Concesio, comune d’origine di Paolo VI. Analogo ad esempio l’inizio del loro episcopato: “Monsignor Montini, alla fine del 1954, si era trovato di colpo proiettato a guidare la più grande diocesi per numero di sacerdoti, di parrocchie e di istituzioni” e “Altrettanto monsignor Ratzinger, nel 1977, per volontà dello stesso Paolo VI, fu messo a capo della grande arcidiocesi di Monaco di Baviera, vedendosi così proiettato dal mondo accademico alla vita pastorale”. Diversi come formazione, sono ambedue – nota il prefetto della Congregazione per i vescovi - colti e aperti al dialogo. Ancora: “Ambedue i pontefici spiccano per la loro fedeltà al Concilio Vaticano II e per l’impegno nel difendere il vero spirito del Concilio”. “Naturale” l’incontro dei due papi sul piano della fede. Nota qui il porporato bresciano: “”Fu grande lo sforzo di Paolo VI di ribadire i punti capitali della fede della Chiesa, in un momento in cui non mancavano prese di posizione a livello dottrinale che sembravano scuotere le supreme certezze della fede. Basterà al riguardo ricordare tanti suoi discorsi, ma soprattutto il Credo del popolo di Dio”.  Anche “Benedetto XVI invita continuamente a ripensare che cosa vuol dire essere cristiani nel nostro tempo: sia nella dimensione personale della fede e in quella ecclesiale dell’annuncio cristiano, sia nella dimensione etica, perché la fede plasma la qualità dei modi di agire”.

    Cercando un santo che accomuni i due pontefici, ecco san Benedetto, “fonte di ispirazione per entrambi”. Rileva il presule bresciano che “in Joseph Ratzinger ciò appare evidente anche nella scelta del nome preso (…) e, soprattutto, nella sua assidua pratica dell’ora et labora, assunta a regola quotidiana di azione e costantemente proposta ai sacerdoti e ai fedeli come itinerario di formazione cristiana”. E per papa Montini? “Paolo VI ha sempre nutrito simpatia per i benedettini, con i quali ha avuto numerosi rapporti fin dalla giovinezza”. Infatti “negli anni dell’adolescenza il giovane Montini ha frequentato l’abbazia benedettina che allora esisteva presso Chiari”. Poi “il 24 ottobre 1964 Paolo VI fu a Montecassino per consacrare la chiesa ricostruita dell’abbazia e, in quell’occasione, proclamò san Benedetto patrono d’Europa”.

    Il 17 dicembre il cardinale Tomas Spidlik ha festeggiato i novant’anni: il Papa ha concelebrato con lui la santa messa nella bellissima cappella Redemptoris Mater, che – come scrive L’Osservatore Romano – “è un capolavoro nato dalle mani di padre Marko Rupnik e dal pensiero di Tomas Spidlik”. Nato nella diocesi di Brno, in Moravia, nel 1919, il porporato gesuita non ha mancato, all’inizio dell’intervista rilasciata al quotidiano della Santa Sede, di valorizzare il senso dello humour, perché “scherzare è utile in un’esperienza cristiana autentica e non solo per restare svegli”. Subito un esempio: “Una volta Giovanni Paolo II ha alzato la mano per benedirmi, ma io mi sono difeso: Santità, non posso più inginocchiarmi. E il Papa: Neanch’io. Di qui il mio apoftegma: Santità, che fortuna che le nostre debolezze corporali comincino dalle gambe e non dalla testa. Si è messo a ridere. Oggi spero valga ancora per me”.  A proposito di Provvidenza, ha rilevato il cardinale Spidlik: “La mia vita mi ha portato dove neppure immaginavo e solo dopo ho scoperto che lo speravo inconsciamente nel cuore. Per dirne una, mai avrei pensato di festeggiare i miei novant’anni con il Papa e vestito di porpora. Certo non lo immaginavo quando, all’inizio della seconda Guerra mondiale, l’irruzione del nazismo ha brutalmente interrotto i miei studi di letteratura all’università di Brno, sconvolgendo le mie prospettive. Già allora la Provvidenza ha avuto tanto lavoro con me”. In quale senso? “Mi è accaduto l’impensabile: un agente della Gestapo si è trasformato in angelo visibile liberandomi dal campo di concentramento, mentre l’angelo custode invisibile mi ha condotto nella Compagnia di Gesù”. Non è finita: “Sant’Ignazio ha stabilito per me altre sorprese: il noviziato a Benesov e a Velehrad, dove è sepolto san Metodio, e lo studio della filosofia mentre ero ai lavori forzati, prima con i soldati tedeschi e poi con quelli russi e rumeni”. Il porporato ha anche rievocato il primo incontro con papa Montini: “Paolo VI l’ho conosciuto il giorno della morte del cardinale Josef Beran, il 17 maggio 1969. Ho vissuto quattro anni nel Collegio accanto al cardinale, espulso da Praga nel 1965 e sono sempre pronto a testimoniare per la sua beatificazione. Poco prima di morire Beran, malato di cancro, ha celebrato la messa nella cappella. Colpito da un’improvvisa crisi respiratoria, ha chiesto l’estrema unzione.. Ero accanto a lui cercando di sostenerlo, ma non c’era più nulla da fare. Paolo Vi, chiamato dal segretario del cardinale, è entrato nella stanza proprio mentre Beran stava morendo. Mi sono spostato per farlo accostare al letto. Il Papa ha dato un bacio al cardinale sulla fronte. Ho visto Beran morire tra le braccia di Paolo VI. La Provvidenza mi ha messo accanto a loro”.

    Il cardinale Spidlik ha sempre evidenziato la necessità per la Chiesa europea di “respirare con due polmoni”. Appare evidente anche nella cappella Redemptoris Mater, ‘commissionatagli’ da Giovanni Paolo II: “Non soltanto gli uomini, ma anche le nazioni hanno una vocazione, per offrire il loro contributo alla Chiesa universale. Ho cercato di indovinare il messaggio cristiano dell’Oriente europeo e di prestargli voce in Occidente”.

    A proposito di rapporti con gli ortodossi chiudiamo con un passo del messaggio (caloroso) del cardinale Walter Kasper inviato il 15 novembre per la morte del patriarca ortodosso serbo Pavle: “Sua Santità Pavle ha svolto il suo servizio in anni molto difficili, segnati da guerre e conflitti in Serbia e negli altri Paesi dei Balcani dove vivono i fedeli della Chiesa ortodossa serba. Malgrado tante sofferenze, egli è rimasto un uomo di fede e di dialogo, umile e gioioso, un esempio luminoso di vita completamente consacrata a Dio e, nel contempo, ha custodito ed incrementato lo spirito di comunione in seno alla Chiesa ortodossa serba”.    

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