SVIZZERA/LIBRI: NASCITA CANTON TICINO, RAPPORTI ELVETO-VATICANI – di GIUSEPPE RUSCONI – www.rossoporpora.org – 31 gennaio 2021
Nell’articolo numero 1001 di www.rossoporpora.org la recensione ragionata di due libri elvetici. Il primo, di Manolo Pellegrini (Armando Dadò editore) riguarda il periodo 1798-1814. Perché il Ticino scelse la Svizzera? Tra le personalità in evidenza il colonnello Giuseppe Antonio Rusconi del Palasio. Secondo libro (autore Lorenzo Planzi, editore Armando Dadò) sulle relazioni tra Svizzera e Santa Sede nel periodo dell’interruzione delle relazioni diplomatiche (1873-1920).
“LA NASCITA DEL CANTONE TICINO – Ceto dirigente e mutamento politico” di Manolo Pellegrini, Armando Dadò editore.
Capita non raramente che qualcuno qui a Roma ci chieda: “Come mai voi ticinesi siete svizzeri?”. E’ proprio in risposta a questa e ad altre domande sui primi anni del Ticino come entità cantonale che viene in soccorso degli interessati un bel volume di Manolo Pellegrini, pubblicato recentemente da Armando Dadò editore (Locarno): “La nascita del Canton Ticino – Ceto dirigente e mutamento politico”. Sono circa 500 pagine, ben leggibili: 9 i capitoli con l’aggiunta di introduzione e conclusioni, ricco apparato iconografico, biografie, tabelle e cartine che abbracciano il periodo 1798-1814, dall’invasione francese alla Restaurazione.
Evidenzia nella Prefazione Marco Marcacci che “il Ticino deve all’influenza francese sia l’emancipazione dalla sudditanza dei Cantoni sovrani nel 1798 (NdR: L’attuale canton Ticino non esisteva, era diviso in otto baliaggi governati dai cantoni della Vecchia Confederazione. L’intervento francese del 1798 portò alla creazione di una ‘Repubblica elvetica’), sia la creazione di uno Stato cantonale autonomo, con tanto di costituzione repubblicana, nel 1803”.
Incominciamo proprio da qui. In quale misura i ticinesi vollero essere “Liberi e svizzeri”, preferendo la Repubblica elvetica alla Repubblica cisalpina? O anche: quanto fu determinante in questa scelta l’invasione francese?
Nell’opera, ricchissima di dettagli, Manolo Pellegrini illustra nel primo capitolo – molto corposo e intitolato “La caduta dell’Ancien Régime nei baliaggi sudalpini” – come sul territorio si confrontassero tre posizioni. La prima, minoritaria sia tra i politici che nella popolazione, vedeva con favore l’unione alla ‘Repubblica cisalpina’ creata dai francesi nell’Italia del Nord (comunanza di lingua e di cultura). La seconda aspirava invece all’emancipazione dei baliaggi in una Repubblica elvetica centralizzata (considerata con favore dalla maggior parte dei politici). La terza era invece quella di coloro che volevano conciliare Stato elvetico e autonomia cantonale al massimo grado (maggioritaria nella popolazione).
Tuttavia tali posizioni erano spesso soggette ad ammorbidimenti sia per maturata convinzione che per pragmatismo o anche convenienza. Lo dimostra anche lo studio dell’A. che ha analizzato vita, pensiero, azione di venti ‘politici’ individuati come protagonisti della nascita e del primo sviluppo del Canton Ticino. Quasi tutti – osserva Pellegrini – “nella primavera del 1798 assecondarono e cavalcarono in qualche modo il cambiamento indotto in modo decisivo dall’intervento francese”. Tutti in ogni caso operarono perché finisse l’ Ancien Régime di cui i baliaggi erano parte integrante. Tuttavia “lo fecero seguendo visioni divergenti” sul destino di quelle terre sudalpine.
Non c’è dunque una risposta netta alle due domande iniziali. Si può dire che sostanzialmente la maggior parte dei ticinesi di allora (inclusi i ceti dirigenti, inizialmente assai divisi nel Luganese e nel Mendrisiotto) si adeguarono alle necessità dei tempi, con convinzione o, se del caso, con un realismo reso consigliabile dalle circostanze. E dunque si ritrovarono più o meno entusiasticamente ad essere “liberi e svizzeri”, mentre per tre secoli erano stati sudditi dei cantoni della Vecchia Confederazione. Da “liberi e svizzeri” nei decenni successivi e soprattutto dal Novecento svilupparono – è vero – un attaccamento emotivamente molto forte alla patria rossocrociata. Un attaccamento che anche oggi è ben radicato e si manifesta palesemente in occasioni diverse (e qui si potrebbe aprire un altro capitolo molto interessante).
In genere i ceti dirigenti favorevoli all’inclusione da emancipati nella Repubblica elvetica si ritrovavano tra i sopracenerini (Bellinzonese, Locarnese, Valli). I sottocenerini (Luganese, Mendrisiotto) erano invece divisi tra fautori dell’Elvetica e della Cisalpina.
In modo particolare il lavoro di Pellegrini ha evidenziato “le capacità del ceto dirigente sudalpino di muoversi e di mediare tra i suoi specifici interessi, quelli della Francia – come potenza dominante durante tutto il periodo preso in esame – e le comunità e gli interessi locali”. Questi ultimi “in diverse occasioni” non “in linea con il processo di modernizzazione politica indotta“ dalle nuove istituzioni.
Nel volume si analizza con dovizia di dati e citazioni il comportamento del ceto politico sudalpino negli anni della Repubblica Elvetica, poi dalla Mediazione (napoleonica) del 1803 con la creazione del Canton Ticino, durante l’occupazione italiana (1810-13, da parte del Regno d’Italia, voluta da Napoleone ufficialmente per combattere il contrabbando di merci inglesi e coloniali), fino alla Restaurazione.
Tra i venti protagonisti emerge la figura di alcune “personalità imprescindibili”. Nel Sopraceneri l’abate Vincenzo Dalberti, il colonnello Giuseppe Antonio Rusconi, l’avvocato Giuseppe Franzoni, l’avvocato Andrea Caglioni. Nel Sottoceneri Giovanni Battista Maggi e Giovanni Battista Quadri, ambedue inizialmente (nel 1798) a favore di un’unione con la Repubblica Cisalpina. I sei “hanno indubbiamente marcato per il loro spessore politico e il ruolo avuto in momenti decisivi per i destini della Svizzera sudalpina, oltre che per la loro presenza in seno alle istituzioni, il periodo 1798-1814”.
L’abate Dalberti si formò a Milano ed è “forse la personalità di più grande spessore” nel ceto dirigente di allora: “L’ampia disponibilità di fonti attorno alla sua figura ci permette di cogliere (…) la sua adesione ad alcune idee cardine del pensiero illuminista e i contorni della sua azione e delle sue posizioni sul piano politico”. Di una delle personalità citate nell’opera di Pellegrini ci eravamo occupati nel nostro “Ecclesiastici ticinesi a Roma nel Settecento” (Armando Dadò editore, 2006): è l’abate Modesto Farina (che morì nel 1856 da vescovo di Padova, sede in cui era stato nominato nel 1820). A lui abbiamo dedicato anche un paragrafo intitolato significativamente “Tra i patrioti luganesi” (pag. 213). Nello stesso capitolo XII, nel paragrafo “Contro la Révolution, ma per la concordia nazionale” (pag. 209) avevamo citato anche le omelie di fine Settecento del francescano Gian Alfonso Oldelli (oratore conosciuto in tutta la Penisola, apprezzatissimo a Napoli).
Per chi vuole conoscere l’essenziale ed anche i dettagli della nascita e dello sviluppo del canton Ticino dal 1798 al 1814, soprattutto attraverso l’analisi del comportamento del ceto dirigente di allora confrontato al grande mutamento politico di quel periodo, l’opera di Manolo Pellegrini è certamente fondamentale. Non solo da tenere in bella mostra o da sfogliare, ma da leggere con attenzione.
MA CHI E’ QUESTO COLONNELLO GIUSEPPE ANTONIO RUSCONI?
Vi chiederete magari chi è il colonnello (citato più sopra) Giuseppe Antonio Rusconi, cui a Giubiasco è dedicata la via che porta al Palasio, il Palazzo di famiglia. Cerchiamo di soddisfare sobriamente l’eventuale curiosità. Giuseppe Antonio Rusconi ha avuto una vita molto interessante. Nacque a Saragozza il 17 giugno 1749, dove suo padre Ludovico Andrea era al servizio della corona di Spagna, capitano e poi tenente colonnello. Anche il giovane Giuseppe Antonio (come i tre fratelli) intraprese la carriera militare, partecipò all’assedio di Gibilterra (1779-1793) e lì si ferì gravemente a un piede. Divenne tenente colonnello nel 1781 e quattro anni dopo fu aggregato allo Stato Maggiore della Piazza di Saragozza. Nel 1790 chiese il congedo, ritornò in patria e nel 1792 fu eletto capitano generale e capo della Milizia. Nel 1798, con la Repubblica Elvetica, divenne prefetto del Cantone di Bellinzona; nel 1801 fu deputato alla Dieta cantonale e nel 1803, con la nascita del Canton Ticino fu eletto deputato al Gran Consiglio e membro del Piccolo Consiglio (l’esecutivo cantonale), un incarico che mantenne – sempre eletto brillantemente - fino al settembre 1814. Si battè con successo perché la Valle Leventina (versante sud del San Gottardo) restasse ticinese e non fosse annessa al Canton Uri (versante nord). Dopo un breve periodo a Milano, tornò nel Ticino e morì a Giubiasco (comune che nel 2017 ha accettato l’accorpamento con Bellinzona) il 13 giugno 1817.
Suo figlio, l’avvocato Giuseppe Rusconi, così ne sintetizzò la personalità in un pro-memoria trasmesso il 20 febbraio 1853 al consigliere federale ticinese Stefano Franscini: “Con la educazione al tutto militare in Ispagna, l’abitudine al comando da un lato, obbedienza e rispetto dall’altro e l’ordine che naturalmente ne consegue, potevano volgere le sue simpatie il suo convincimento ad idee politiche meno larghe e popolari senza cessare egli un momento di essere ottimo cittadino e leale repubblicano; mentre obbediente alle leggi, anteponendo sempre il pubblico al proprio interesse, null’altro si è mai prefisso che la retta amministrazione, il buon ordine e la prosperità della repubblica” (grazie al compianto Sigis Gaggetta per la citazione, riesumata nel 1949, per il bicentenario della nascita di Giuseppe Antonio Rusconi). Nel volume di Pellegrini anche la riproduzione fotostatica della prima facciata di una lettera del colonnello, quand’era prefetto del cantone di Bellinzona.
“IL PAPA E IL CONSIGLIO FEDERALE” di Lorenzo Planzi (Armando Dadò editore) – Dal 1873 al 1920 non ci furono relazioni diplomatiche ufficiali tra Svizzera e Santa Sede, ma…
Ci si ricorderà che dal 7 al 9 novembre 2020 il cardinale Parolin si sarebbe dovuto recare in Svizzera per festeggiare il centenario della ripresa delle relazioni diplomatiche tra Svizzera e Santa Sede. Con una prima tappa a Lugano per onorare la memoria del vescovo Eugenio Corecco (vedi in questo nostro sito). Le note restrizioni derivate da ragioni sanitarie hanno costretto al rinvio della visita. Non però alla pubblicazione nelle tre lingue ufficiali elvetiche di uno studio di Lorenzo Planzi sui rapporti elveto-vaticani nel mezzo secolo in cui essi furono ufficialmente interrotti. Ufficialmente, poiché, ufficiosamente proseguirono, come vedremo più oltre. “Il Papa e il Consiglio federale” (“Der Papst und der Bundesrat”, “Le Pape et le Conseil fédéral”), così suona il titolo dell’opera, edita da Armando Dadò (Locarno). Oggi troviamo un nunzio a Berna (fino allo scorso 31 dicembre Thomas Edward Gullikson) e un ambasciatore in Vaticano residente in Slovenia (Denis Knobel, succeduto a Pierre-Yves Fux, il primo ambasciatore svizzero presso il soglio di Pietro di religione cattolica)
Negli anni Novanta, quando eravamo a Palazzo federale, si era posto con insistenza – soprattutto in seguito allo scoppio del ‘caso Haas’ a Coira – il tema della presenza di un ambasciatore elvetico in Vaticano. Eh sì, poiché se nel 1920 i rapporti erano ripresi, non erano stati perfezionati, nel senso che se a Berna c’era un nunzio, in Vaticano non c’era invece un ambasciatore svizzero. Insomma erano rapporti imperfetti. Le complesse vicende legate alla diocesi di Coira fecero sì che nel 1991 il governo inviasse a Roma un ambasciatore in missione speciale, Jenö Staehelin. E nel 1992 il Consiglio nazionale (Camera dei deputati) accolse a larga maggioranza un postulato del liberale-radicale ticinese Massimo Pini perché le relazioni si normalizzassero pienamente. Nel 2004 il Consiglio federale accreditò poi un ambasciatore (non più in “missione speciale”, ma non residente a Roma) presso la Santa Sede. Ed è questa la situazione odierna, anche se – in un’intervista a Kath.net di inizio novembre 2020 – l’attuale ministro degli esteri Ignazio Cassis ha fatto intravvedere con prudenza la possibilità di un ambasciatore svizzero in Vaticano residente a Roma (“su richiesta della Santa Sede”). Nella stessa intervista Cassis ha così descritto le differenze odierne tra i due Stati: “La nostra Costituzione inizia con le parole: ‘Nel nome di Dio, l’Onnipotente!’. Abbiamo valori cristiani ma siamo anche una nazione secolarizzata. Ecco perché abbiamo molte cose in comune con la Santa Sede. Ma ci sono anche differenze. Il Vaticano ha una posizione conservatrice per quanto riguarda l’immagine della famiglia. La Svizzera la vede in modo diverso.”. Da notare le ultime due frasi… del resto Ignazio Cassis si era già evidenziato per la partecipazione calorosa al primo Gay Pride in terra ticinese, a Lugano (vedi https://www.rossoporpora.org/rubriche/svizzera/781-svizzera-ticino-un-bel-cantone-dalla-ga-y-etta-pelle.html )
Ma veniamo al libro di Planzi, che offre una doppia prefazione. Nella prima il cardinale Pietro Parolin sintetizza le ragioni della rottura delle relazioni, “riconducibili alla condanna del ‘Kulturkampf’ da parte del Beato Pio IX” e quelle della ripresa delle stesse “nel segno della carità” concretizzata nel corso della Prima Guerra Mondiale su spinta tenace e convinta di Benedetto XV. Nell’altra prefazione Ignazio Cassis evidenzia che gli anni della rottura non si tradussero però “in un cinquantennio di silenzio”. Perché le relazioni continuarono “attraverso molteplici canali ufficiosi” e “a trasmettere le informazioni al Vaticano ci pensarono i vescovi svizzeri, appoggiati da informatori attivi nelle parrocchie e nelle associazioni cattoliche, ma anche i cosiddetti nunzi laici, ovvero ambasciatori di altri Paesi”. Ed è quest’ultimo il tema al centro dell’opera, quello dell’ “intrecciare relazioni…senza relazioni”, come osserva l’Autore.
I rapporti si interruppero ufficialmente con la decisione del Consiglio federale del 12 dicembre 1873 in un clima pesantemente contrassegnato dalla lotta anticattolica del Kulturkampf. Già da decenni nella Confederazione periodicamente emergevano forti attriti tra protestanti e cattolici (vedi ad esempio la Guerra del Sonderbund del 1847, anche se in quel caso giocarono pure altre ragioni non strettamente religiose). La situazione precipitò sia per le decisioni del Concilio Vaticano I che stabilivano il primato pontificio e l’infallibilità papale ex-cathedra che, in particolare nel nostro caso, per l’enciclica Etsi multa luctuosa del 21 novembre 1873, in cui Pio IX condannava atti anticattolici in diversi cantoni, oltre all’espulsione del vescovo Gaspard Mermillod da Ginevra e alla deposizione del vescovo di Basilea Eugène Lachat. In conseguenza della decisione governativa l’incaricato d’affari Giovanni Battista Agnozzi il 12 febbraio 1874 dovette lasciare la Nunziatura di Lucerna per rientrare a Roma. Si dovrà attendere l’8 novembre 1920 perché un nuovo rappresentante ufficiale vaticano, il nunzio Luigi Maglione, consegnasse le lettere credenziali al Governo svizzero, che all’unanimità e su spinta del consigliere federale ticinese, cattolico e conservatore Giuseppe Motta il 18 giugno aveva deciso il ripristino delle relazioni diplomatiche. Imperfette certo, come si è già detto. Tuttavia, a tale proposito, fa notare l’Autore che nel 1920 la Confederazione ospitava 34 ambasciatori a Berna, ma ne contava solo 12 nel mondo.
Nei sette capitoli del volume Planzi illustra i diversi momenti nello sviluppo delle relazioni ‘ufficiose’ elveto-vaticane tra il 1873 e il 1920. In particolare evidenzia come quelli più intensi si verificarono durante i pontificati di Leone XIII e di Benedetto XV (sotto Pio X ci fu uno stallo). In particolare un capitolo è dedicato alla delicata questione di una diocesi ticinese, storicamente legata a Como (per la maggior parte) e a Milano. Dopo un lungo lavorio diplomatico la questione si risolve (provvisoriamente) con l’erezione di un’amministrazione apostolica del Ticino (guidata da mons. Vincenzo Molo di Bellinzona), che formalmente fa capo alla diocesi di Basilea. E’ solo nel 1971 che l’amministrazione apostolica sarà riconosciuta anche de jure come diocesi di Lugano.
Curiosa e nel contempo emblematica la vicenda del vescovo ginevrino Gaspard Mermillod: cacciato dalla Svizzera nel 1873, continua a guidare i cattolici ginevrini dalla vicina Ferney-Voltaire (lì visse per 19 anni il filosofo illuminista), viene riammesso nella Confederazione nel 1883, addirittura viene festeggiato dal Consiglio federale a metà luglio del 1890 (nel menu anche “petites truites, sauce genevoise et italienne, Homards à la cardinale, Cèpes à la samaritane, Bombe Vaticane…” ). Mermillod sarà anche tra i principali promotori dell’Università cattolica di Friburgo, fondata nel 1889.
Largo spazio nel volume alla collaborazione umanitaria tra Svizzera e Santa Sede durante la Prima Guerra mondiale, con l’internamento in Svizzera di quasi settantamila prigionieri malati e feriti dapprima solo francesi e tedeschi, poi anche belgi, inglesi e austriaci. In evidenza nei negoziati mons. Francesco Marchetti Selvaggiani e il consigliere federale Giuseppe Motta. Da tale collaborazione, voluta fortemente da Benedetto XV, derivò infine il ristabilimento delle relazioni diplomatiche.
Nel centinaio di pagine di “Il Papa e il Consiglio federale” c’è naturalmente anche molto altro. Lasciamo al lettore il piacere della scoperta, ma– concludendo – vorremmo citare due considerazioni finali dell’A. La prima: “La riapertura della Nunziatura a Berna, nel 1920, simbolizza la progressiva integrazione dei cattolici nello Stato federale svizzero”. La seconda: “Il riavvicinamento tra Santa Sede e Svizzera, completato nel 1920, può (…) essere analizzato come parte integrante di un processo (…), quello che tende a far dialogare il Papato con gli Stati e la società contemporanea”.