SI TUFFO’, SI IMMERSE, NE USCI’: IL TEVERE DELL’ AMBASCIATORE REGAZZONI – di GIUSEPPE RUSCONI – www.rossoporpora.org – 11 giugno 2014
Altra intervista all’ambasciatore svizzero Bernardino Regazzoni, che da poco ha lasciato Roma per Parigi – Se nell’intervista al ‘Giornale del Popolo’ (20 maggio) Regazzoni aveva rievocato soprattutto la sua carriera e i cambiamenti registrati nell’azione diplomatica negli ultimi vent’anni, nell’intervista al mensile ‘Rivista di Locarno’(numero di giugno) si sofferma invece in particolare sugli anni passati in riva al Tevere
Dove si trova Villa Monticello? A Roma, quartiere ‘alto’ dei Parioli. Che cos’era? Il casino nobile di una grande vigna probabilmente del Cinque-Seicento (probabilmente conventuale), successivamente trasformata in vera e propria villa dagli inizi del Settecento. Che cos’è? Dal 1937 è sede della rappresentanza diplomatica svizzera in Italia. Ha così ospitato, per risalire solo alla fine degli Anni Settanta, gli ambasciatori Antonino Janner (il primo che abbiamo conosciuto, giovialissimo, di Bosco Gurin), il ginevrino Gaspard Bodmer, Francesca Pometta, Francis Pianca, Dante Martinelli, Alexis Lautenberg, lo zurighese Bruno Spinner (prematuramente scomparso) e Bernardino Regazzoni (cinquantasettenne, luganese fin nel midollo delle ossa, anche sportivamente), che da pochi giorni ha lasciato Roma per trasferirsi in un’altra capitale cara ai ticinesi, Parigi. Gli è subentrato – sempre per Italia, Malta e San Marino – un altro ticinese, il cinquantacinquenne Giancarlo Kessler. Abbiamo incontrato, alla vigilia della partenza, l’ambasciatore Regazzoni per un’intervista in cui ci ha parlato di alcuni aspetti della sua ricca esperienza romana. E non solo.
Signor ambasciatore, pochi giorni fa Lei ha assistito, da rappresentante della Svizzera in Italia, al Suo ultimo Giuramento delle Guardie svizzere. Tra breve raggiungerà la Sua nuova sede di Parigi. Nel cortile vaticano di San Damaso mi sembrava come se piangesse da un occhio e ridesse dall’altro….
Occhio che piange, occhio che ride è un topos, un luogo consolidato della letteratura diplomatica. A ogni stazione di cambio non mancano mai i momenti della partenza e dell’arrivo. Si è presi da un sentimento forte di missione compiuta e nel contempo di tristezza per quanto si lascia e si è cercato di vivere a fondo. Perché il nostro mandato non lo si può vivere a metà: bisogna sempre immergersi totalmente nell’ambiente che ti è stato assegnato, altrimenti non si può dare il meglio da un punto di vista professionale. Lasciare dietro di sè una fetta della propria vita suscita sempre un po’ di tristezza. Ma poi si arriva nel posto nuovo e l’occhio che piange si trasforma in occhio che ride. Sarà così anche questa volta, perché sono molto contento di avere l’occasione di vivere Parigi.
A proposito di Giuramento delle Guardie svizzere: lì emerge una certa Svizzera, con i suoi riti, suoni e colori, con l’armonico intersecarsi delle lingue nazionali anche nella messa nella Basilica di San Pietro, che non si ritrova forse più in patria. Però per molti romani la Guardia svizzera pontificia rappresenta un tipo di Svizzera che piace…
Da ambasciatore presso la Repubblica italiana, mentre il collega Fux lo è presso la Santa Sede, ho sempre accolto con grande piacere l’invito a presenziare da semplice spettatore a questo evento, indubbiamente importante, per gli Svizzeri di Roma e per la Svizzera intera. Per quanto riguarda l’immagine della Svizzera in Italia la questione è complessa. Durante il mio servizio a Roma ho potuto constatare che tra la realtà dei rapporti italo-svizzeri e la percezione che si ha della Svizzera esiste senza dubbio una forte divaricazione. La prima è oggettivamente molto variegata e ricca nelle sue espressioni concrete, la seconda appare piuttosto riduttiva. Tra le percezioni naturalmente c’è anche quella un po’ oleografica citata, che ha aspetti positivi di tradizione, affidabilità, bellezza, ma che di per sé non può riassumere l’intera realtà elvetica e delle relazioni bilaterali.
Qui la diplomazia ha un compito preciso…
Sì, quello di intervenire anche su questo aspetto della percezione di un Paese nell’opinione pubblica. E’ un aspetto che è divenuto predominante negli ultimi anni, tanto che le decisioni strategiche vengono ormai prese proprio anche in base alla percezione che di questo Paese ha l’opinione pubblica attraverso lo strumento dei media. Guardi, se dovessi citare il cambiamento maggiore che ha accompagnato l’evoluzione della diplomazia dagli Anni Novanta, cioè da quando sono entrato al servizio del Dipartimento degli Affari esteri, direi che è l’irrompere nelle nostre valutazioni e decisioni dell’elemento ‘immagine’ della Svizzera quale emerge nell’opinione pubblica del Paese in cui si esercita il mandato. E’ un aspetto che un tempo poteva essere considerato anche secondario, ma di cui oggi sarebbe sbagliato negare la grande importanza, l’enorme influenza sulle decisioni politiche..
E’ vero che la percezione oggi si materializza, diventa realtà sebbene spesso non lo sia. Un esempio attualissimo: basti pensare alla percezione che si ha nell’opinione pubblica di papa Francesco … quanto corrisponde alla realtà?. Passiamo a qualche impressione sui Suoi anni romani.. Inizialmente Lei ha servito gli interessi svizzeri in due sedi africane (Costa d’Avorio e Zaire), poi il ritorno a Berna (francofonia, integrazione, consigliere diplomatico di Joseph Deiss), il trasferimento da ambasciatore prima nello Sri Lanka poi in Indonesia. Infine la nomina a Roma nel dicembre 2009. Ecco… Roma: per uno svizzero e per un ticinese che cosa significa?
Indubbiamente Roma è un posto speciale. Per un diplomatico svizzero Roma è la capitale di uno dei tre grandi vicini della Svizzera e dunque è già di per sé molto importante, uno dei centri principali d’interesse, come ha evidenziato il Consiglio federale. Per un ticinese poi… anche dal mio punto di vista biografico l’Italia è un Paese che conosco bene per averci fatto gli studi, le vacanze; mia mamma è italiana, ho sposato una toscana in Toscana. Aggiungiamoci la vicinanza derivata da ragioni culturali e linguistiche.
Prestando servizio in Africa e in Asia, oltre che a Berna, non aveva mai o quasi lavorato in lingua italiana…
Infatti ho dovuto abituarmi a farlo sia all’interno che all’esterno dell’Ambasciata, perché il linguaggio di lavoro è per me sempre stato diverso da quello che si parla (e che ho sempre parlato) tra le quattro mura di casa! Naturalmente essere di madrelingua italiana in Italia costituisce per un diplomatico un grande vantaggio, poiché consente di muoversi un po’ come un pesce nell’acqua. Ma non è che siano tutte rose e fiori: l’Italia è pur sempre un Paese diverso dalla Svizzera e si differenzia al suo stesso interno per l’uso di codici linguistici e culturali differenti. Milano non è Roma e Roma non è il Meridione. Di nuovo ti trovi a far da ponte, venendo anche da un’amministrazione che ha modi diversi di funzionamento.
Qui torniamo alla percezione dell’immagine della Svizzera. Nel 1984 e nel 1985 – da docente del Liceo svizzero di Roma – ho svolto due indagini sull’argomento tra circa 4mila studenti di 20 licei romani. E, come prevedibile, erano emersi i cliché tradizionali: lo svizzero-tipo è avido di denaro, mangia la cioccolata, ci tiene alla puntualità…
Sono tre cliché che persistono. Del resto si ritrovano, modificati, per ogni Paese in maggiore o minor misura. Bisogna esserne coscienti. Certo questi cliché si dovrebbero modificare, ma i tentativi che si fanno non garantiscono il successo. Perciò come Ambasciata abbiamo tentato di utilizzare i cliché come grimaldello per rendere visibile aspetti elvetici meno conosciuti e più profondi. Insomma, “… va bene, facciamo una buona cioccolata, siamo puntuali, ecc… ma poi c’è tutto il resto!
Allora ci spieghi che cosa avete di concreto in tal senso…
Partendo dalla constatazione che rassegnarsi ai cliché non è l’atteggiamento più proficuo per valorizzare i rapporti italo-svizzeri, abbiamo cercato di agire in profondità sulla percezione dell’immagine della Confederazione trasmessa dai media italiani. Un bilancio di quanto fatto? Forse non sono la persona più adatta, dato che ne sono compartecipe e dunque è più difficile per me dare un giudizio oggettivo. Forse la domanda andrebbe posta a Lei, osservatore che le cose le conosce molto da vicino…
Anche Lei sa essere oggettivo…
A me sembra che oggi la nostra immagine in Italia sia un po’ più articolata rispetto a quando sono arrivato all’inizio del 2010.
Cioè?
Ho l’impressione che quattro anni fa si leggevano molti articoli in cui la nostra immagine veniva ridata un po’ all’ingrosso, semplicisticamente… e si leggevano giudizi anche drastici in senso negativo. Oggi, se ci ferma ai titoli, già traspare spesso una valutazione più sfumata e, se si va a vedere dentro gli articoli, si ritrovano tonalità nuove e più aderenti alla realtà. Dal punto di vista dell’immagine trovo magistrali le campagne di ‘Svizzera turismo’, che partono da un aspetto tradizionale introducendo l’innovazione: presentano in sintesi la Svizzera delle città che convive con quella rurale, quella dei bei paesaggi montani. Bisogna suonare su entrambe le tastiere. In Ambasciata abbiamo cercato con determinazione di agire, coscienti che la questione della percezione è fondamentale anche per ciò che riguarda le decisioni governative. E abbiamo cercato di far collaborare in questa impresa diversi attori, oltre a quello istituzionale: i media in primo luogo ed enti e istituzioni non governative.
Si riferisce in particolare al ‘Forum per il dialogo tra Svizzera e Italia’ promosso in questi ultimi due anni?
Sì. Con il ‘Forum’ siamo riusciti ad associare livelli diversi e trasversali: pubblico e privato, nazionale e regionale, media, cultura, scienza, economia. Perciò abbiamo invitato tante persone diverse, che hanno una cosa in comune: occuparsi nel contempo di Svizzera e di Italia. Ho avuto l’impressione che la prima edizione, quella a Roma, sia andata piuttosto bene; la seconda, a Berna, ancora meglio perché il primo incontro aveva già prodotto dei frutti buoni. Si sono create reti trasversali con un approccio comune ad esempio al problema della costruzione di infrastrutture, a quelli riguardanti la piazza finanziaria, al persistere dei cliché chiedendoci “Come si può intervenire”? Interessante che la domanda si stata posta non solo da noi istituzioni, ma anche dagli interlocutori non governativi. Penso che questo strumento abbia contribuito a smuovere almeno un po’ l’acqua nello stagno della percezione reciproca tra Svizzera e Italia.
Signor ambasciatore, ci sono anche altre istituzioni svizzere a Roma…
Oltre all’ambasciata, due realtà che è giustissimo ricordare: la Scuola Svizzera di Roma e l’Istituto Svizzero….Incomincio dalla prima: la Scuola Svizzera di Roma per me è stata un vero, enorme valore. E’ ormai di proporzioni assai ampie, ha più di 500 allievi e insegna con un metodo didattico-pedagogico svizzero. Ospita sia una minoranza di nazionalità elvetica che una maggioranza di studenti romani, che si confrontano con la nostra realtà. E’ veramente e sorprendentemente molto grande il numero di persone della società romana che sono stati loro stesse allievi…
…certo, poiché la Scuola è stata fondata già nel 1946 dal vulcanico albergatore Hans Albert Wirth, proprietario dell’Hotel Victoria…
… e in tanti casi hanno figli o nipoti cresciuti a via Malpighi…L’azione quotidiana della Scuola Svizzera si rivela molto più efficace di quella che possa fare un ambasciatore che come interlocutori ha persone già ben strutturate nella loro mentalità culturale. Mi rallegro molto perciò per l’attenzione che in Svizzera, in ambito politico, si rivolge alle Scuole svizzere all’estero, coscienti della loro grande importanza certo da un punto di vista didattico-pedagogico, ma anche da tanti altri punti di vista per una conoscenza maggiore della Confederazione all’estero . Ora in Italia sono restate, ahimè, solo 4 scuole: con Roma, Milano, Bergamo e Catania. Ci sono per restare e c’è da rammaricarsi, perché, con un po’ di lungimiranza, se ne sarebbero potute salvare un altro paio, invece di chiuderle.
Parliamo anche dell’Istituto svizzero…
E’ un’istituzione prestigiosa al centro di Roma, vicino a via Veneto, che veicola e anche crea la cultura contemporanea elvetica. Non è solo una vetrina, ma anche un’officina. E’ e vuole essere un luogo d’incontro, di dibattiti ad altissimo livello. Ne ricordo uno sulla globalizzazione con la nostra ex-consigliera federale Ruth Dreifuss, che interloquiva con il filosofo Giacomo Marramao. Grande anche la partecipazione di pubblico, a riprova della sete di buona cultura che si ha anche a Roma.
L’ambasciata stessa è stata luogo d’incontro non esclusivamente istituzionale… Lei è apparso più volte sulla pagina mondana del ‘Messaggero’, il maggior quotidiano romano…
L’ambasciata ha voluto essere aperta anche alla cultura locale, poiché la cultura – spesso sottovalutata – è uno strumento formidabile per creare ponti e capire un Paese. Manifestazioni culturali, molta musica…
Molto jazz…
Per seguire i gusti del padrone di casa…
… ma anche la festa nazionale, le feste di Natale davanti al grande albero, con canti nelle lingue nazionali…
Momenti intimi da condividere con almeno una parte (purtroppo non era possibile invitare tutti ) della colonia svizzera, in particolare del Circolo svizzero di Roma. Momenti molto belli anche questi.
Qualcosa che non è riuscito a fare?
Cantieri sono stati chiusi, ma ne restano tanti aperti. Fa parte integrante della carriera diplomatica a un certo punto di dover partire. Ma credo capiti lo stesso anche nella vita, quella con la V maiuscola.
P.S. L'intervista appare in versione cartacea nel numero di giugno 2014 della 'Rivista di Locarno', edita da Armando Dadò.
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