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    GUGLIELMO TELL E ALTRO: MITI SVIZZERI, REALTA' E RETROSCENA

    GUGLIELMO TELL E ALTRO: MITI SVIZZERI, REALTA’ E RETROSCENA – di GIUSEPPE RUSCONI – www.rossoporpora.org – 13 novembre 2018

     

    Da poco in libreria “I miti svizzeri- Realtà  e retroscena” di Thomas Maissen, tradotto in italiano per l’editore ticinese Armando Dadò. Guglielmo Tell, il Giuramento del Grűtli, il Patto del 1291, Marignano e la neutralità svizzera, la Confederazione nella Seconda Guerra Mondiale e tanto altro nell’analisi critica, rigorosa dello storico svizzero-tedesco. Intanto ieri papa Francesco ha ricevuto in udienza il presidente svizzero Alain Berset.

     

    Premessa: Ieri, lunedì 12 novembre, il presidente della Confederazione svizzera Alain Berset è stato ricevuto in udienza da papa Francesco. “Cordiale, tranquillo, intelligente, dotato di humour”: così il quarantaseienne politico friburghese (socialista e cattolico) dopo il colloquio di 27 minuti con Jorge Mario Bergoglio. Berset, che naturalmente vive a Berna, aveva già colloquiato con il Papa il 21 giugno scorso, a Ginevra, in occasione della visita dello stesso al Consiglio ecumenico delle Chiese. E ne era restato entusiasta. Il che si è ripetuto ieri. Nell’incontro si è parlato di politica umanitaria internazionale e di sforzi per la pace. Francesco ha poi lodato l’impegno della Guardia svizzera pontificia e ha auspicato che venga potenziata nel numero (gli effettivi dovrebbero accrescersi da 110 a 135) e nelle strutture (sono previsti grandi lavori – che dovrebbero durare quattro anni) per la ristrutturazione completa della caserma, con una spesa di circa 50 milioni di franchi). Tra i doni di Berset al suo interlocutore un poster del 1917 della Croce Rossa con sullo sfondo la cattedrale di Ginevra… Di migrazioni e accoglienza il presidente svizzero ha poi discusso con il cardinale Parolin e l’arcivescovo Gallagher. Berset, che domenica sera aveva visitato l’Istituto svizzero di Roma, ieri dopo la conferenza-stampa ha invece reso omaggio alle Guardie svizzere.

     

    Dapprima fu la banda dell’esercito che nella ticinese Giubiasco, bandiera rossocrociata al vento, percorreva suonando via san Giobbe per raggiungere lo ‘Stallone’, luogo di esercitazione (oltre che di periodiche esposizioni bovine, caprine e anche di conigli). Poi l’inaugurazione nel 1956 di una locomotiva con lo stemma di Giubiasco: e noi eravamo tra gli scolaretti di prima elementare a sventolare bandierine e ad applaudire il discorso del sindaco, il consigliere nazionale (deputato a Berna) Libero Olgiati. Ogni anno poi, la festa nazionale del Primo Agosto era caratterizzata dall’esposizione delle bandiere svizzera e ticinese alle finestre, dai palloncini illuminati, dai falò, dall’inno nazionale (prima il ‘Ci chiami o Patria/uniti impavidi/ Snudiam l’acciar’…, poi il ‘Salmo svizzero’..-‘Quando bionda aurora/il mattin c’indora’…) e dai discorsi patriottico-commemorativi a Bellinzona, oltre che da fuochi d’artificio in famiglia come fontanelle e piccoli vulcani. Al ginnasio di Bellinzona nei primi Anni Sessanta il professore di musica Hélios Gaggetta ci insegnava “O spiaggetta tranquilla e romita” (quella del ‘giuramento del Grűtli o Rűtli ‘), “Sacra Terra del Ticino”, “Il rosso è la fiamma che scaldaci il cuore/il bianco è il sorriso di un nobile ardore/la candida croce che impressa vi sta/un vivido pegno di pace ne dà”). Anche più tardi, nel giugno 1978 - proprio prima di partire per il Liceo svizzero di Roma - abbiamo inscenato con la IV B del ginnasio di Giubiasco un ‘Guglielmo Tell’ di Schiller in versione italiana e ridotta, con tanto di capretta in scena. Insomma… siamo cresciuti mangiando pane e miti confederali. Non è che la cosa ci sia dispiaciuta né che ci dispiaccia oggi. I miti fondativi di un popolo nutrono il cuore e il Primo Agosto – nel caso elvetico - alimentano anche la gioia di occhi e orecchie.

    Però sono miti, in parte, in gran parte o totalmente. Basta riconoscerlo, con l’aiuto degli storici che fanno doverosamente il loro mestiere.  “Quanto contano gli storici e l’insegnamento della storia nel modellare una coscienza civica repubblicana?si chiede lo storico ticinese Orazio Martinetti nell’incipit della prefazione di un testo di notevole spessore, frutto delle variegate riflessioni di uno dei maggiori storici elvetici, lo svizzero-tedesco Thomas Maissen, autore nel 2015 di “Schweizer Hekdengeschichten – und was dahintersteckt”. Orbene il testo è stato tradotto da Laura Bortot e pubblicato da poco dalla casa editrice Armando Dadò di Locarno con il titolo “I miti svizzeri – Realtà e retroscena”.

    “Quanto contano gli storici….?” Molto,  se pensiamo alla Svizzera degli Anni Trenta del secolo scorso, quando – con il loro fondamentale concorso e anche quello di tutte le arti – fu elaborata la “difesa spirituale” della Confederazione, in funzione soprattutto anti-nazista e anti-fascista. Agli storici, osserva Martinetti, “spettava il compito di ricostruire un quadro coerente da cui fosse possibile trarre una lezione per l’avvenire: un approccio teso a mettere in luce una specifica ‘filosofia della storia’ svizzera. (…) ‘Esser vogliamo un indiviso popol di fratelli’: era questo l’obiettivo ultimo, l’essenza autentica dello spirito elvetico, l’espressione del suo ‘genio’ votato alla pacificazione”.

    Il concetto della ‘difesa spirituale’ permeò generazioni di svizzeri fino agli Anni Settanta, quando perse vigore da una parte per l’irrompere del Sessantotto, dall’altra per la messa a disposizione degli storici di nuovi e più accurati strumenti di ricerca. La ‘difesa spirituale’ (la cui ultima espressione di rilievo nazionale fu forse nel 1969 la distribuzione per tutti i cittadini del libretto rosso del ‘Prontuario della difesa civile’) era fondata su quei miti che potevano stimolare il senso d’appartenenza a un comune destino al di là delle differenze culturali, linguistiche, religiose: il mito delle origini, con in evidenza il Patto del 1291, il ‘Giuramento del Grűtli” e la storia di Guglielmo Tell, l’arciere di Uri che si ribella al balivo asburgico Gessler e lo trapassa con una freccia; la neutralità a partire dalla sconfitta di Marignano (Melegnano) nel 1515; il costituirsi della “Willensnation”, la nazione fondata sulla volontà di stare insieme; poi ancora il ‘Ridotto nazionale’ nella Seconda Guerra Mondiale., la Svizzera come ‘caso particolare’ nella storia. Thomas Maissen nel suo agile saggio riprende questi e altri aspetti del ‘Sonderfall Schweiz’, sottoponendoli a una critica storica rigorosa, senza pregiudizi negativi.

    Maissen lo fa partendo da brevi passi contenuti in relazioni, dichiarazioni, allocuzioni del Primo Agosto di Christoph Blocher, il leader dell’Unione democratica di centro, partito di destra moderata che lo stesso Blocher ha portato a essere il primo (con distacco) di Svizzera. Sono affermazioni, quelle di Blocher, tese a evidenziare la bontà dei miti fondativi e dei valori fondamentali di neutralità, indipendenza, libertà e democrazia come elementi costitutivi nello sviluppo della storia svizzera, già a partire dal Trecento. Ciò in funzione soprattutto della lotta contro questa Unione europea, considerata come una piovra burocratica che vorrebbe estendere i suoi tentacoli sull’indipendenza elvetica. Merita di ricordare che va ascritta in buona parte a Blocher anche la larga vittoria (oltre il 57% dei votanti) nella consultazione popolare del novembre del 2009 contro l’erezione di nuovi minareti.

    Qualche scampolo delle tesi del libro di Maissen, giusto per solleticare l’appetito del lettore.

    Guglielmo Tell: “I dubbi sull’esistenza di Guglielmo Tell nascono praticamente insieme alla sua presenza letteraria, che in effetti prende avvio (…) con la prima storia svizzera data alle stampe nel 1507 a nome di Petermann Etterlin. (…) A metà del XVI secolo Aegidius Tschudi redasse questo racconto nella forma giunta a noi attraverso l’illuminista Johannes von Műller e Friedrich Schiller (..) Già nel Seicento gli studiosi sapevano che intorno al 1210 lo storico danese Saxo grammaticus aveva raccontato nei suoi Gesta Danorum la storia dell’arciere Toko, la quale nei suoi elementi essenziali preludeva alla leggenda di Tell: tiro alla mela, seconda freccia, uccisione del tiranno nel bosco”. Del resto “le prime notizie di una rivolta (solo) degli abitanti di Svitto contro gli Asburgo, ancora senza Tell e giuramento di alleanza (Patti federali), si attestano intorno al 1420” e, secondo il cronista Conrad Justinger, nell’occasione “gli svittesi (…) difesero i loro diritti di libertà (Freiheitsrechte) tradizionali, che dovevano all’impero; il fatto che gli Asburgo disdegnassero questi diritti li rendeva dei tiranni contro cui era legittimo resistere”. Insomma, secondo tale narrazione, gli Asburgo (conti del Tirolo dal 1363, avevano poi conquistato gli attuali cantoni di Argovia e Turgovia) avevano violato il diritto imperiale, cui facevano riferimento gli svittesi.  Comunque, nota Maissen, “le fonti relative al periodo a ridosso del 1300 e subito dopo non rivelano affatto tensioni persistenti tra i ‘Paesi forestali’ (Uri, Svitto, Untervaldo) e gli Asburgo o addirittura un regime dispotico da parte dei balivi austriaci”. Ciò non può sorprendere, se si pensa che gli Asburgo, “con le loro sterminate ambizioni nel contesto dell’Impero, erano ben poco interessati alle aspre e inospitali valli alpine”. .

    Patto fondativo del 1291:  “Non venne sancito sul Grűtli” né ha qualcosa a che vedere con il “Giuramento del Grűtli”, presunto “complotto segreto (…) sublimato dall’ardore poetico di Friedrich Schiller”. Il Patto non riguardava “una difesa collettiva della libertà democratica che, intorno al 1300, esisteva tanto poco nella Svizzera centrale quanto in altri luoghi”. Infatti “lo scopo della nobiltà e degli agricoltori agiati, che dettavano legge, era la salvaguardia dei loro stessi diritti di signoria e delle loro vie commerciali nel contesto di un’alleanza regionale”. Nel 1291 (il 16 ottobre) in ogni caso fu stipulata un’altra alleanza tra Svitto, Uri e… Zurigo, “per reciproca difesa”: tale alleanza aveva però una durata di tre anni (e non perpetua) né si focalizzava sui Paesi “forestali” della “Svizzera primitiva” (Urschweiz). Solo nel 1315 fu firmato a Brunnen un vero “Patto federale” tra Uri, Svitto e Untervaldo. Da notare che per secoli all’interno della “Svizzera primitiva” la data di nascita della Confederazione fu controversa: nel 1291 per il comune di Svitto (data che poi si impose), nel 1307 per Uri, nel 1315 per Brunnen.

    La sconfitta di Marignano (Melegnano), inizio della neutralità elvetica?: “Il 13 e 14 settembre 1515, a Marignano, si verificò soprattutto una vittoria epocale della nuova e costosa tecnologia militare: l’artiglieria mobile dei francesi sbaragliò con armi da fuoco la fanteria confederata serrata a quadrato che, da avanguardia militare in Europa, vide esaurirsi qui la propria esistenza. Quindi il pensiero ricorrente non era certo quello della neutralità e della moderazione”. Tant’ vero che “Berna raddoppiò il suo territorio nel 1536 con la conquista del Paese di Vaud” e “nei secoli seguenti gli svizzeri ebbero una parte importante nelle guerre europee, sebbene non sotto le proprie bandiere, ma al servizio di eserciti stranieri”.

    Il ruolo della Francia: dopo Marignano “la Francia di fatto agì per tre secoli come potenza protettrice e arbitro tra i cantoni spesso impegnati in contese, concesse loro privilegi per le esportazioni delle merci e accordò irrinunciabili forniture di sale, accolse i molti uomini che la Svizzera stessa non era in grado di sostentare e li formò come soldati all’interno dei suoi reggimenti”. Così capitò anche per le altre grandi potenze dell’epoca, che “ebbero interesse a lasciare integra la Confederazione durante le numerose e lunghe guerre dell’epoca moderna”, bisognose come erano “di corposi contingenti di soldati reclutati”. Insomma “non furono gli svizzeri a ritirarsi progressivamente dai campi di battaglia, ma fu la Confederazione, in quanto alleanza difensiva militare, a ritirarsi dalla politica estera anch’essa costantemente bellicosa”. Si deve ricordare poi che all’interno della Confederazione “le massicce perdite in termini di vite umane provocarono vivaci dibattiti, alla stessa stregua dei mutamenti sociali e culturali verificatisi per effetto della brutalità vissuta e sperimentata in guerra, dell’acquisizione di usanze e costumi forestieri e di ricchi bottini, della corruzione dei detentori di rendite che garantivano ai principi stranieri il rifornimento di mercenari”.

    Perché la Svizzera non fu invasa nella Seconda Guerra Mondiale: “Si sbaglia se si pensa di poter spiegare in maniera monocasuale il destino clemente della Svizzera, come conseguenza per esempio di una servizievole collaborazione economica o di una eroica lotta difensiva”. Infatti, “nella prospettiva dei nazisti i confederati non erano combattenti per la resistenza pronti a qualsiasi gesto, anche estremo, in nome dei loro valori libertari, bensì membri di un clan, duri di comprendonio, rammolliti da una pace durata secoli e da un carattere pacifico ormai radicato, i quali presto sarebbero rinsaviti sulla via autentica della lotta per la sopravvivenza della razza”. Adolf Hitler “manifestava sdegno e disprezzo quando definiva gli svizzeri “un ascesso nel cuore dell’Europa” e “nient’altro che un ramo malriuscito del nostro popolo”. Purtuttavia “la conquista della Svizzera avrebbe provocato l’avvio di trattative complicate e conflittuali con Mussolini, di cui Hitler aveva bisogno come alleato, non come semplice Stato confinante”.

    Allineamento o resistenza nella Seconda Guerra Mondiale?: “A partire dall’estate del 1940 per la Svizzera intesa nella sua globalità rimase realisticamente solo la chance  di una spesso fortuita combinazione di allineamento e resistenza: un regime con pieni poteri e diritto di necessità ( notrechtliches Vollmachtenregime ) e nel contempo fedeltà alla costituzione liberal-democratica con elezione del Parlamento (1943) e in tutto sette consultazioni popolari”; prudenza della stampa politica sulla scorta di un’ampia autocensura, ma spazi di libertà non ufficiali e caute sanzioni in caso di trasgressione; stretta collaborazione economica; esportazioni su vasta scala nel Terzo Reich di prodotti di rilevanza bellica, ampia disponibilità riguardo a infrastrutture e servizi finanziari; ottimi servizi nell’ambito della neutralità (protezione, crocevia di diplomatici e agenti di spionaggio, anche degli Alleati)”. Riguardo al contesto dei doveri umanitari non possiamo non ricordare l’asilo concesso a decine di migliaia di perseguitati (circa 50mila, di cui oltre 20mila ebrei) e rifiutato a circa 25mila persone, secondo il Rapporto Bergier del 2002 (ma il dato è contestato ad esempio dalla storica Ruth Fivaz-Silbermann e ricondotto ad alcune migliaia). In ogni caso il film del 1981 “La barca è piena” del regista Markus Imhoof  - protagonisti cinque ebrei e un disertore tedesco rifugiatisi nella Svizzera orientale – costringe a riflettere profondamente su quanto successe non raramente allora alle frontiere elvetiche.

    Ci sarebbe molto altro di importante da offrire alla conoscenza e alla meditazione del lettore. Cui non resta che comprare il libro. Un atto di cui non si pentirà, pur continuando magari ad apprezzare giustamente le note trascinanti del “Gugliemo Tell” (1829) di Gioachino Rossini, morto giusto centocinquant’anni fa.

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