PAPA/APPELLO DI RABAT SU GERUSALEMME: EBRAISMO DIVISO - di GIUSEPPE RUSCONI – www.rossoporpora.org – 11 aprile 2019
L’appello congiunto su Gerusalemme di papa Francesco e re Mohammed VI, firmato il 30 marzo a Rabat, ha suscitato e continua a suscitare nel mondo ebraico italiano un dibattito ampio e vivace. Ne diamo conto nella sintesi che segue, che comprende anche l’intervento – che farà certo discutere - del 10 aprile dello storico Francesco Lucrezi.
Sabato 30 marzo, a Rabat - nell’ambito del viaggio apostolico in Marocco - papa Francesco e re Mohammed VI hanno sottoscritto un “Appello per Gerusalemme/Al Qods – Città santa e luogo d’incontro”. Ecco il testo:
In occasione della visita al Regno del Marocco, Sua Santità Papa Francesco e Sua Maestà il Re Mohammed VI, riconoscendo l’unicità e la sacralità di Gerusalemme / Al Qods Acharif e avendo a cuore il suo significato spirituale e la sua peculiare vocazione di Città della Pace, condividono il seguente appello:
“Noi riteniamo importante preservare la Città santa di Gerusalemme / Al Qods Acharif come patrimonio comune dell’umanità e soprattutto per i fedeli delle tre religioni monoteiste, come luogo di incontro e simbolo di coesistenza pacifica, in cui si coltivano il rispetto reciproco e il dialogo.
A tale scopo devono essere conservati e promossi il carattere specifico multi-religioso, la dimensione spirituale e la peculiare identità culturale di Gerusalemme / Al Qods Acharif.
Auspichiamo, di conseguenza, che nella Città santa siano garantiti la piena libertà di accesso ai fedeli delle tre religioni monoteiste e il diritto di ciascuna di esercitarvi il proprio culto, così che a Gerusalemme / Al Qods Acharif si elevi, da parte dei loro fedeli, la preghiera a Dio, Creatore di tutti, per un futuro di pace e di fraternità sulla terra”.
L’appello ha sollevato reazioni miste in ambito ebraico. Ne dà conto il Moked, il portale del mondo israelitico italiano – nel contesto di Pagine ebraiche - in particolare (il 4 aprile) con una riflessione di Valentino Baldacci, presidente dell’Associazione Italia-Israele di Firenze e (il 5 aprile) con un florilegio di pareri diversi, raccolti da Adam Smulevich. Il 10 aprile interviene poi la riflessione molto approfondita (e anche pungente) dello storico Francesco Lucrezi. Si potrebbe ricordare l’antico proverbio yiddish, secondo il quale dove ci sono due ebrei, si manifestano (almeno) tre opinioni: è una constatazione che da una parte mostra la libertà intellettuale dei membri della comunità (vedi anche, per restare all’oggi, quanti partiti – tutti con il loro gruzzolo di voti – partecipano alle elezioni politiche israeliane), dall’altra (quasi paradossalmente) non ha però impedito che l’ebraismo riuscisse ad attraversare i millenni, nonostante le tante tragedie accadute, giungendo fino a noi grazie alla conservazione di un’identità comune profondissima che oltrepassa le divergenze ideologiche.
Torniamo all’ “Appello di Rabat”, sintetizzando allora i contenuti del dibattito sorto all’interno del mondo ebraico italiano.
Osserva tra l’altro sul Moked del 4 aprile 2019 il già citato Valentino Baldacci: “A una lettura letterale dell’appello, sembra che esso appartenga esclusivamente alla sfera religiosa”. Tuttavia “da parte di alcuni commentatori l’appello è stato accostato al recente riconoscimento da parte degli USA di Gerusalemme come capitale di Israele (…) ed è stato perfino interpretato come una dichiarazione a favore di una internazionalizzazione di Gerusalemme, cioè di un ritorno a quella Risoluzione n. 181 del 27 novembre 1947 dell’Assemblea generale dell’ONU, che prevedeva non solo la divisione del mandato britannico sulla Palestina in due Stati - uno arabo e l’altro ebraico – ma anche la creazione di un’entità internazionale sotto amministrazione ONU che doveva comprendere un territorio più ampio della sola città di Gerusalemme e dintorni, fino a inglobare anche Betlemme”. Rileva qui di seguito Baldacci che “la Santa Sede ha sempre considerato (…) questa soluzione come la migliore”.
Però non si può negare che tale ipotesi “è stata sepolta” dalla storia dal 1947 in poi. Come dimostrano “l’immediato rifiuto arabo di accettare la Risoluzione n. 181, poi la guerra che è immediatamente seguita a questo rifiuto; alla conclusione della guerra, l’annessione da parte della Giordania della Città Vecchia di Gerusalemme e di tutta la sua parte orientale; infine il trattato di pace stipulato tra Israele e Giordania il 26 ottobre 1994, che ha sancito ciò che la Giordania stessa aveva già deciso unilateralmente nel 1988, cioè la rinuncia a ogni suo diritto sulla Cisgiordania. Gli stessi accordi di Oslo del 1993 hanno avuto come conseguenza il passaggio di Betlemme sotto l’amministrazione palestinese, seppellendo definitivamente – insieme al trattato di pace tra Israele e Giordania – ogni traccia della Risoluzione n. 181”.
Evidenzia ancora Baldacci che “oggi, sotto la sovranità israeliana, i Luoghi Santi di Gerusalemme godono di una condizione quale mai si era verificata in passato (…) , una situazione ben diversa da quella che esisteva al tempo del controllo giordano – dal 1948 al 1967 – quando il quartiere ebraico fu quasi interamente distrutto e lo stesso accesso degli ebrei al Kotel (Muro del Pianto) reso estremamente difficoltoso”.
Perciò, conclude Baldacci, “è bene troncare sul nascere ogni maliziosa interpretazione dell’appello del Papa e del Re del Marocco (…) lasciandolo nel suo ambito proprio, cioè quello esclusivamente religioso. Una interpretazione che, tra l’altro, favorirà la continuazione e l’approfondimento dei rapporti politici, economici e culturali tra Israele e i Paesi arabi moderati, tra i quali il Marocco svolge un ruolo rilevante; senza dimenticare che il Marocco è l’unico Paese islamico nel quale esiste ancora una consistente presenza ebraica”.
Il 5 aprile ecco l’antologia di pareri diversi raccolti da Adam Smulevich. Molto perplesso Sergio Della Pergola. L’ “illustre demografo e figura di riferimento della comunità degli italiani residenti in Israele” annota: “Quella del Papa è una iniziativa che non ho davvero capito. Quando uno parla di solito ha un obiettivo in testa, sa dove vuole andare a parare. In questo caso non è invece chiaro quale fosse il suo ordine del giorno”. L’appello insomma “è sconcertante e al tempo stesso demagogico, che rimanda a un’epoca in cui il Dialogo tra ebrei e cristiani era a un livello assai meno sviluppato”. Della Pergola pensa che l’appello faccia parte delle “cose che lasciano il tempo che trovano”. E postilla causticamente (“un po’ goliardicamente, ma è il primo pensiero che ho avuto”): “Visto che Gerusalemme è di tutti, allora anche il Vaticano sia di tutti. Aspettiamo quindi con impazienza l’apertura di una sinagoga e di una moschea all’interno del suo territorio, così da assicurare libertà di culto a tutti i fedeli delle religioni abramitiche”. Considerazione nostra: può darsi che con tale boutade Della Pergola abbia offerto involontariamente all’imprevedibile papa Francesco un’altra possibilità clamorosa di connotare concretamente la Chiesa ‘in uscita’…
David Assael, ricercatore, vede invece nell’appello (“di chiara matrice politica”) una risposta all’asse Netanyahu-Trump su Gerusalemme. Osserva Assael: “Il recente spostamento dell’ambasciata americana è stato non solo un favore politico a Netanyahu, che ha potuto rivendicare questo successo, ma anche un segno di attenzione alla comunità evangelica che, come noto, è influenzata da una certa visione apocalittica di Israele e del ruolo della sua presenza ebraica. La mossa del Papa ha come primo bersaglio proprio questo assetto e la creazione di un asse alternativo”. Tuttavia non si sa quanto l’appello potrà essere incisivo nelle vicende mediorientali, anche perché ciò non si è verificato per altre iniziative papali, “come ad esempio la preghiera congiunta in Vaticano con Peres e Abu Mazen tenutasi, con molte aspettative, nel giugno del 2014”.
Certo Bergoglio è però “un politico abile” ed “è possibile che abbia già davanti a sé una strategia articolata nei dettagli, e se noi oggi non la cogliamo non è da escludere che in futuro possa portare a risultati insperati”. In ogni caso “è in corso (…) un tentativo di avvicinamento al mondo arabo e all’Islam con l’obiettivo di favorire un clima più disteso in Medio Oriente. Se questo porterà a qualcosa di tangibile adesso è difficile dirlo, anche perché almeno in Europa la voce della Chiesa su un’altra questione spinosa come quella dei migranti non pare troppo ascoltata”.
Giuseppe Momigliano è il Rabbino capo di Genova e membro della Giunta dell’Ucei: anche per lui l’appello “ha un sapore più politico che religioso”. Non c’è dubbio che “Israele è l’unico Paese che, in Medio Oriente, tutela i suoi cittadini cristiani. E in questi anni, nei confronti di ogni comunità religiosa, ha assicurato la massima disponibilità e collaborazione. Eppure tutto questo nella dichiarazione non traspare”. Momigliano aggiunge poi un’altra considerazione non irrilevante: “La Chiesa non ha fiducia nell’autorevolezza dello Stato di Israele in quanto garante delle libertà religiose di tutti. Questa iniziativa lo certifica in modo chiaro e quindi qualche ripercussione per forza di cose ci sarà. Sul piano dei rapporti interreligiosi assunzioni del genere alimentano infatti un clima di freddezza. È inevitabile”.
Per il rabbino Elia Richetti (già presidente dell’Assemblea Rabbinica Italiana) “ponendo l’identità ebraica di Gerusalemme in una posizione non preminente rispetto a quella delle altre tradizioni religiose e negando di conseguenza il diritto che Gerusalemme sia riconosciuta come capitale di uno Stato ebraico, il Papa sembra dimenticare chi era Gesù e in quali luoghi ha agito”. Per Richetti l’appello potrebbe avere conseguenze inquietanti: “Parole e iniziative di tal fatta indirizzano le coscienze delle persone meno preparate e contribuiscono a rafforzare pregiudizi nei confronti di Israele e della sua ebraicità”.
Ritorniamo a una lettura ‘positiva’ dell’appello con Ruben Della Rocca, vicepresidente della Comunità ebraica di Roma: “Bergoglio, con questo appello, sta riconoscendo che Israele è l’unico Paese ad avere la capacità di tutelare i luoghi sacri di Gerusalemme. Una politica che attua costantemente dal 1967, da quando cioè ne ha avuto la possibilità”. Della Rocca è critico con i critici dell’appello: “Chi vede in queste parole una minaccia alla sovranità di uno Stato indipendente sbaglia o non conosce la realtà di Israele. Non conosce appunto quel che accadeva prima del ’67”. Perché “i fatti sono che per un cristiano oggi è possibile accedere liberamente al Santo Sepolcro, per un ebreo andare al Muro Occidentale, per un musulmano pregare alla Spianata delle Moschee. E che Israele, sia nel caso dei luoghi cristiani che nel caso di quelli islamici, delega a organizzazioni riconducibili a tali comunità religiose la tutela di questi spazi di culto e preghiera”.
Ultimo intervento, per ora (sempre sul Moked, 10 aprile, Pagine ebraiche, Idee), di cui è autore lo storico Francesco Lucrezi, che sviluppa sul tema una riflessione approfondita (oltre che appuntita). Osserva Lucrezi che se nell’analisi dell’appello “ci si ferma al primo livello – che pare essere di natura squisitamente religiosa – c’è poco da commentare, non si può non essere del tutto d’accordo”. Perciò “il Papa ha detto una cosa giusta, anzi ovvia (…) Gerusalemme è di tutti, è anche mia, non è solo dei cittadini d’Israele”.
Ciò riconosciuto, “sorgono però due domande”. La prima: “Perché il Papa ha detto quel che ha detto proprio e soltanto per Gerusalemme, che è un modello raro e irraggiungibile di pluralismo religioso, attentamente difeso, giorno per giorno, dalle autorità statali? Forse le chiese e le sinagoghe in Arabia, Siria, Yemen, Iran godono di altrettanta libertà?”. E la seconda: “Come mai questa raccomandazione arriva oggi, che è l’unico tempo, nella storia millenaria di Gerusalemme, in cui la libertà di culto è garantita? Quali dichiarazioni sono giunte dal Vaticano, per esempio, nel recente periodo della sovranità hascemita su Gerusalemme, quando dei soldati armati vigilavano costantemente innanzi al Muro Occidentale, controllando attentamente i pochi stranieri che vi si avvicinavano, per scacciarli bruscamente – o peggio – ove mai avessero osato fare il gesto di sfiorare quelle pietre, mostrando così di essere, addirittura, Dio non voglia, ebrei?”. A quel tempo ci fu “un silenzio tombale. Eppure la Santa Sede conosceva bene la situazione”.
L’appello odierno “non si capisce a cosa serva, cosa voglia dire”. Perciò “sorge il legittimo sospetto che il vero significato delle dichiarazioni sia stato un altro, ossia un implicito messaggio politico, volto ad affermare che Gerusalemme non deve essere la capitale d’Israele”.
Conclude Lucrezi: “Ove mai fosse così, ne prendiamo atto”. Però, continua in modo sferzante, “la Chiesa, in politica, non è infallibile; può cambiare (anzi: cambia sempre) idea. La cambierà anche su Gerusalemme, è sicuro. Occorre solo pazientare, perché i suoi tempi, com’è noto, non sono rapidissimi”.