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    INTERVISTA AL CARD. AGOSTINO VALLINI

    INTERVISTA AL CARDINAL AGOSTINO VALLINI - 'IL CONSULENTE RE' DI MARZO 2007

     

    Da quasi tre anni il cardinale Agostino Vallini è prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica. Il presule sessantasettenne, porporato dal 24 marzo 2006, era stato in precedenza per un decennio vescovo ausiliare e vicario generale a Napoli (dal 1989) e per un lustro vescovo di Albano.

     

    Nell’intervista che segue, rilasciataci nella storica e bramantesca sede del Palazzo della Cancelleria, il cardinale – ricordata la reazione all’annuncio della nomina – ripercorre alcune tappe della sua vita. In particolare riemergono la figura del padre maresciallo dei carabinieri (che era stato portato in un campo di prigionia in Germania e poi era tornato alla fine della guerra),  la nascita della vocazione a Corchiano (Viterbo),  gli studi a Napoli e alla Lateranense  (con il ricordo di monsignor Pietro Pavan, poi cardinale, e di monsignor Franco Biffi), l’aria degli anni del Concilio e l’interpretazione (talvolta distorta) dei testi approvati, i preparativi per la visita di Giovanni Paolo II a Napoli. Il porporato evidenzia infine come il suo servizio attuale alla Chiesa universale non sia – come potrebbe apparire – improntato a fredda burocrazia: riguarda invece la vita concreta delle persone  in un contesto giuridico, ma con precise finalità pastorali.

     

     

    Eminenza, sono trascorsi quasi tre anni dalla nomina a Prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica. Quale fu la Sua reazione quando Le fu comunicata la   nomina ? Le dispiaceva lasciare l’attività pastorale a diretto contatto con i fedeli ?

     

    La decisione del Santo Padre Giovanni Paolo II di nominarmi Prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica fu per me una grande sorpresa. Avevo insegnato diritto canonico per circa trent’anni a Napoli e per quasi un decennio anche a Roma,  lo stesso Sommo Pontefice mi aveva chiamato a far parte del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi e collaboravo pure in alcuni organismi giuridici della Conferenza Episcopale Italiana,  ma – nominato Vescovo nel 1989 -  ero convinto di dover  spendere tutte le mie energie nel ministero pastorale diretto. Dinanzi alla volontà del Papa percepii subito il grande onore ed insieme la responsabilità  di un ufficio impegnativo e molto delicato. Non nascondo che ho iniziato a svolgere questo nuovo compito di più stretta collaborazione al ministero del Romano Pontefice con una certa trepidazione e con molto impegno, riprendendo a studiare a tempo pieno.

     

    Lei è nato a Poli, nel Lazio,  ma poi è vissuto a Napoli per molti anni. Come mai la Sua famiglia si è trasferita in quella città ?

     

    Il mio babbo era un maresciallo dei carabinieri toscano, la mamma viterbese: alla mia nascita la famiglia era a Poli. Dopo la guerra fu trasferito a Napoli, così la mamma e  noi figlioli  lo seguimmo in quella città dove siamo rimasti.

     

    Quali i motivi dell’entrata in seminario a Napoli nel 1952 ? Già voleva diventare sacerdote ?  Immaginava di divenire un giorno vescovo e cardinale ?

     

    Fin da piccolo ho avuto il desiderio e il fermo proposito di diventare sacerdote. Il  giovane parroco di Corchiano (il mio paese da ragazzo), don Domenico Anselmi – oggi ottantasettenne - fu allora il modello della mia vita:  posso dire che il Signore si servì di lui per far sbocciare il germe della vocazione che aveva seminato in me.  Naturalmente l’ambiente cristiano della mia famiglia e l’educazione e l’esempio dei miei santi genitori fecero il resto.  Quanto poi a ciò che è avvenuto nel corso della vita, non solo non immaginavo, ma neppure lo desideravo: io aspiravo a fare il parroco, come tutti i miei compagni di seminario.

     

     

    Eminenza, Lei ha ricordato i Suoi genitori santi. Suo padre fu preso prigionieri dai tedeschi e portato in Germania. Ritornò dopo la fine della guerra. Raccontò le sue esperienze di prigionia in famiglia?

     

    Ne parlava come di un’esperienza molto dura, vissuta con grande dignità e anche con l’enorme desiderio che finisse presto per potersi ricongiungere alla famiglia. Ne parlava perché per lui fu difficile sopravvivere, tanto che dovette addirittura costruirsi gli oggetti essenziali per sopravvivere e poter resistere ad esempio al freddo: le scarpe fatte con della stoffa, le posate. Di mio padre ricordo il costante invito a una vita austera, sobria, che gli nasceva anche dall’esperienza fatta in Germania; noi ragazzi non avevamo provato quei patimenti e allora, negli anni della ricostruzione, tendevamo a una vita meno severa. Nostro padre ci indicava la via: ad esempio a casa nostra il pane era sacro e non se n’è mai buttato via neanche un pezzetto. Quando, pensionato, lasciò l’arma dei carabinieri collaborò molto attivamente con la Caritas della parrocchia

     

    Voi abitavate a Barra…

     

    E lui fece addirittura un censimento dei poveri che abitavano nei bassi del quartiere. Fu di grande aiuto per il parroco e per le attività caritative, aveva una fede semplice ma sentita e curata: leggeva ogni giorno brani del Vangelo acquistato per cento lire dalle Paoline, recitava il Rosario e la domenica si ritrovava per la messa in parrocchia. Per me è stato un grande insegnamento: lo serbo nel fondo del cuore e ancora mi guida.    

     

     

    Lei è stato ordinato sacerdote nel 1964 e ha respirato l’aria del Concilio ecumenico Vaticano II: è un’aria attuale ancora oggi ?

     

    Sì, la Provvidenza mi ha concesso di prepararmi al sacerdozio negli anni cinquanta e nei primi anni sessanta, cioè durante gli ultimi anni del pontificato di Pio XII, il cui magistero arricchiva lo studio della teologia. Come non ricordare, ad  esempio, l’influsso sulla nostra formazione delle encicliche Mediator Dei e Mystici corporis? Poi nel 1959 l’annuncio del Concilio e il clima di preparazione e di celebrazione dell’assise ecumenica. Ricordo l’impegno che mettevamo nel seguirne  lo svolgimento, la lettura quotidiana  dei rapporti delle sedute conciliari e poi lo studio dei documenti che via via venivano promulgati. Durante l’ultima sessione del Concilio  ero sacerdote studente a Roma  ed ho avuto la gioia di partecipare alle celebrazioni  conclusive. Mi chiede poi  se il clima del Concilio è attuale ancora oggi.  Naturalmente le rispondo di sì e con convinzione, precisando però che intendo riferirmi ai testi e al vero spirito del Concilio. Conosciamo tutti come   il Concilio purtroppo non sia stato interpretato e recepito sempre nel modo giusto; ma nella linea della “ermeneutica della riforma” – come l’ha chiamata il Santo Padre Benedetto XVI nel discorso alla Curia Romana il 22 dicembre 2005 - il Concilio ha portato grandi frutti e tanti altri ne porterà   alla Chiesa per affrontare le sfide del nostro tempo. Dopo quarant’anni resta ancora  tanta strada da fare  per una completa ricezione del Concilio. Io penso che gioverebbe molto al sentire  ecclesiale della comunità cristiana di oggi ritornare ai testi completi del Concilio e non  solo procedere per citazioni, come talvolta è avvenuto in questi quarant’anni.

     

    Eminenza, può rievocare brevemente i Suoi anni di insegnamento alla Università Lateranense  e i conseguenti rapporti  con monsignor Pietro Pavan, rettore e successivamente cardinale?

     

    Dopo aver conseguito il dottorato in utroque iure  fui chiamato ad insegnare, prima come assistente del padre Anastasio Gutierrez  e poi come docente incaricato di “Diritto pubblico ecclesiastico”.  Fu un banco di prova interessante ed impegnativo, perché mi fu chiesto di reimpostare la disciplina, adeguandola alla dottrina del Vaticano II.  Sono convinto che ciò avvenne per la fiducia che ripose in me monsignor Pietro  Pavan, rettore magnifico della Lateranense, del quale ero stato studente. Tra i tanti valenti maestri di diritto, di cui conservo grata memoria,  monsignor Pavan lo ricordo anche come un maestro di vita umana e sacerdotale. Ho intrattenuto con lui frequenti rapporti  anche quando, diventato cardinale, lo visitavo nella casa delle Figlie della Chiesa, a Ponte Galeria. 

     

    Eminenza, Lei ha conosciuto anche il successore di monsignor Pavan, monsignor Franco Biffi…

     

    L’ho conosciuto perché, quando ero studente e nei primi anni di docenza, era segretario generale dell’Università. Poi, eletto Rettore magnifico, volle che continuassi come professore. Ma nel 1978 il cardinale Corrado Ursi mi richiamò a Napoli come rettore del Seminario teologico; lo dovetti dire a monsignor Biffi, che ne fu dispiaciuto, ma poi accettò la mia volontà di obbedire al mio vescovo. Sulla scia del suo grande maestro monsignor Pavan, di cui ereditò anche la cattedra e di cui  curò l’edizione delle opere, monsignor Biffi fu un valente studioso  nell’ambito della dottrina sociale della Chiesa. 

     

     

    Come Vescovo Ausiliare di Napoli Lei ha curato la preparazione della visita pastorale di Giovanni Paolo II in quella diocesi. Che cosa ricorda di quella   esperienza ? 

     

    Ero stato appena nominato ausiliare e l’arcivescovo, il cardinale Michele Giordano, mi affidò l’incarico di coordinare  la preparazione  della visita del Papa a Napoli. Lavorammo intensamente per un anno e mezzo: dal maggio dell’89 al novembre 1990. Volevamo che la visita del Papa  fosse preparata da un cammino spirituale e pastorale, che impegnasse tutte le realtà della diocesi. Quattordici furono gli incontri del Papa con le diverse categorie di persone e per ognuno di essi ci fu un itinerario specifico di preparazione, con sussidi appropriati. Con un gruppo di valenti collaboratori si riuscì a coinvolgere con   la comunità ecclesiale anche la società civile, il mondo della cultura, del lavoro e le stesse istituzioni. Ricordo con particolare gioia l’incontro del Papa con i giovani. Al termine della visita, che durò tre giorni, dal 9 all’11 novembre del 1990, il Papa fu molto contento e il ricco patrimonio del suo magistero è ancora oggi un punto di riferimento pastorale per l’arcidiocesi partenopea.

     

    Adesso Lei è chiamato ad occuparsi di altri problemi. Quanto il servizio che svolge attualmente fa parte della Chiesa “viva” e non “burocratica” ?

     

    Certo nel campo di lavoro in cui sono inserito oggi mi occupo di altri problemi. Il Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica tratta questioni molto delicate, che toccano la vita delle persone dal punto di vista delle relazioni giuridiche, che nella Chiesa comunque hanno sempre una finalità pastorale: dunque non è e non può essere considerato  un lavoro soltanto burocratico.

     

    Eminenza, può precisare gli ambiti del Suo servizio?

     

    La Segnatura Apostolica provvede alla retta amministrazione della giustizia nella Chiesa. A tal fine esercita una triplice competenza: giudiziaria, contenzioso-amministrativa e amministrativa disciplinare. I compiti di Supremo Tribunale sono abbastanza ristretti: giudica le querele di nullità e le istanze di “restituito in integrum”  contro le sentenze rotali, i ricorsi nelle cause  sullo stato delle persone che la Rota Romana abbia negato di ammettere a nuovo esame e altri ricorsi.  Attraverso la cosiddetta “sectio altera”, introdotta da Paolo VI «per una più conveniente tutela dei diritti dei fedeli», giudica i ricorsi contro gli atti amministrativi singolari emanati o approvati da un dicastero della Curia Romana, tutte le volte che si discuta se l’atto impugnato abbia o meno violato la legge. Come pure giudica le controversie deferite dal Papa o dai dicasteri e sui conflitti di competenza  tra i diversi dicasteri della Curia. Infine vigila  sulla retta amministrazione della giustizia nei tribunali di tutta la Chiesa.  Come vede, si tratta di un servizio ecclesiale  complesso e  di grande responsabilità.

     

     

                                                                 

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