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    DON GUANELLA: INTERVISTA A DON MINETTI

    INTERVISTA A DON NINO MINETTI SU DON GUANELLA - 'IL CONSULENTE RE ONLINE' DI GIUGNO 2011

     

    Nella prima parte dell’intervista al Superiore generale emerito dell’Opera don Guanella ( e oggi Superiore provinciale romano) la reazione all’annuncio della canonizzazione del Fondatore e le difficoltà incontrate dal processo in sede romana. Nella seconda la nascita e il grande sviluppo del Centro guanelliano (Casa san Giuseppe) a via Aurelia antica, che ospita soprattutto disabili mentali; ma oggi le difficoltà economiche incombono impietose. Con le istituzioni, Comune e Regione, su questo punto non riesce quasi più a parlare…

     

    A quasi otto anni dall’intervista del 2003 (vedi “Il Consulente RE” cartaceo numero 8 di quell’anno con un inserto sull’Opera don Guanella) abbiamo voluto reincontrare don Nino Minetti, allora Superiore generale della Congregazione  per una chiacchierata sulla canonizzazione del Fondatore e anche per saperne di più sulla situazione di una delle maggiori opere guanelliane ,il Centro (Casa san Giuseppe) a via Aurelia Antica, che da 93 anni accoglie emarginati (in particolare, da decenni, disabili mentali, i ‘buoni figli’). Don Minetti è oggi il settantaseienne Superiore della Provincia Romana di san Giuseppe, risiede a via Aurelia Antica e conosce bene sia il passato che il presente della Casa. Ne è uscita l’intervista che segue. Per chi vuole approfondire la figura di don Guanella, la sua vita, spiritualità, pedagogia, rimandiamo alla parte – che appare in questo stesso numero de “Il Consulente RE” – intitolata: Don Guanella: l’apprezzamento di Giovanni Paolo II, in cui si riproduce anche il saluto che papa Wojtyla, in visita al Centro di via Aurelia antica, fece il 28 marzo 1982 ai religiosi e alle religiose guanelliane.

    Don Minetti, dal 1953 Lei è un religioso guanelliano. Nell’Opera Lei ha raggiunto il vertice nel 1993, essendo nominato superiore generale, ottavo successore di don Guanella, servizio che Lei ha svolto con passione fino al 2006. Ora Lei è superiore della Provincia Romana di san Giuseppe, che va ben oltre il Lazio, comprendendo in Italia un territorio che dalla Toscana giunge alla Sicilia, con 18 presenze e 37 servizi educativo-assistenziali. Quando ha saputo della canonizzazione di don Guanella, lungamente attesa, come ha reagito?

    Faccio mia la reazione dell’odierno Superiore generale, don Alfonso Crippa: “Con gioia incontenibile nel cuore e slancio rinnovato per la missione”.

    E’ lo stesso don Crippa, che – come vedremo – l’anno scorso dubitava di una sollecita conclusione della causa. Non può stupire quindi la sua grande gioia e non può stupire quella dell’intera Famiglia guanelliana. Ma incominciamo ab ovo. La causa di canonizzazione (fase diocesana, in questo caso per Como e Milano) per don Guanella prese avvio nel 1923, pochi anni dopo la sua morte nel 1915. A Roma, dopo 8 anni in cui fu vagliata la validità della fase diocesana, nel 1939 papa Pio XII  diede il suo consenso alla trattazione della causa in Congregazione. Si sono avuti così non meno di 22 anni di indagini, prima che la causa si ‘sbloccasse’ con la dichiarazione di eroicità delle virtù…22 anni!

    La principale causa del ritardo furono le obiezioni mosse alla santità eroica di don Luigi Guanella dai testimoni nel processo

    Dai testimoni?

    Basti dire che per almeno dieci anni il promotore della fede, il cosiddetto avvocato del diavolo, pensò che la causa non dovesse più procedere.

    Perché?

    Soprattutto il nipote di don Guanella sosteneva che non c’era bisogno assolutamente di beatificare un prete che non si elevava al disopra della normalità sia come scienza che come santità. Era un prete normale: come lui ne avremmo dovuto canonizzare tanti, diceva. Poi il nipote ne declassava la statura intellettuale, ma questo per la santità serve poco. Era un periodo in cui anche Nostra Santa Romana Chiesa si chiedeva: perché beatificare don Guanella?

    Finalmente negli Anni Sessanta…

     

     … arriva l’interessamento di Giovanni XXIII, che da giovane aveva conosciuto don Guanella e aveva conservato per lui una grandissima stima. Egli sciolse il nodo e il 6 aprile 1962 firmò il decreto di eroicità delle virtù. Due anni dopo, perché c’erano già due miracoli (la guarigione istantanea di Maria Uri e di Teresa Peghin), il 25 ottobre del 1964, papa Paolo VI lo elevò agli onori degli altari.

    Ad altri 46 anni di distanza ecco la canonizzazione. L’anno scorso, nell’ Esortazione ai confratelli dopo la celebrazione della VI Consulta generale, l’attuale superiore generale (e Suo successore) don Alfonso Crippa aveva tra l’altro rilevato: “Prendiamo occasione da quanto ci propone la Consulta per un nuovo slancio a camminare sui passi del Fondatore. Avevamo posto molta speranza nella tanto desiderata canonizzazione, che invece sembra andare più a rilento delle nostre aspettative”. Andava a rilento ed ora invece è giunta a conclusione…

     

    E’ stata la fase più lunga, perché si attendeva l’accertamento di un altro miracolo, che ora c’è, riconosciuto: la guarigione del giovane americano William Glisson, che aveva riportato un gravissimo trauma cranico cadendo mentre pattinava.

    Don Minetti, l’eredità viva di don Guanella si esprime quotidianamente nel Centro di via Aurelia antica 446

    Noi siamo su via Aurelia antica fin dal 1918, subito dopo la vendita a Monte Mario della colonia agricola che don Guanella aveva aperto nel 1904, arrivando a Roma. Da allora si iniziò il grande servizio del Fondatore, teso sempre ad accogliere, dovunque andasse, il maggior numero possibile di poveri. Le sue case sotto questo aspetto erano sempre un’arca di Noè, poiché don Guanella accoglieva bambini malati, adolescenti dispersi, orfani, i debili mentali, gli anziani. Pian pianino la popolazione è aumentata. I primi malati venivano accuditi in due baracche di legno.

    Quand’è che si costruirono case in muratura?

    Nel 1928 il primo presidio, che ospitava 100-150 emarginati. Fu edificata anche una grande chiesa, dedicata a san Giuseppe: ogni casa doveva essere una parrocchia, con una chiesa, presidio della carità. Nel 1940-45 fu costruito un secondo presidio, dai nostri sacerdoti si può dire: era un complesso molto grande. Qualche anno dopo la Seconda guerra mondiale, quando entrai da seminarista in via Aurelia antica i ricoverati erano 600, di tutti i tipi. Qui mangiavano, qui dormivano, qui pregavano, qui giocavano, qui trovavano un lavoro.  L’assistenza era fatta dai sacerdoti e dai fratelli coadiutori, religiosi guanelliani. Nei primi trent’anni di presenza la buona fama della nostra Casa era stata costruita giorno dopo giorno da un nostro grande sacerdote, don Mauro Mastropasqua, che passava molti giorni della settimana in piazza Colonna da questuante della carità per far mangiare 600 persone al giorno. In poco tempo si era fatto conoscere da tutta Roma: quindi piovvero abbondanti le offerte quotidiane, mensili e l’Opera don Guanella potè gradualmente svilupparsi..

    Intanto medicina e psicologia evolvevano nelle loro tecniche…

     

    Negli anni Sessanta l’Opera incomincia a rinnovare le tecniche di assistenza verso soprattutto il mondo della disabilità. Poi lentamente, proprio con l’obiettivo di divenire un centro-pilota nell’ambito della disabilità, abbiamo diminuito il numero di anziani, non sostituendoli più quando morivano. La Casa è così diventata sostanzialmente per soli disabili.

     

    Disabili di che tipo?

    Disabili soprattutto mentali, cioè della categoria delle persone più trascurate, più ‘dimenticate’, ‘nascoste’, quasi vergognandosi molte famiglie di averne in casa. Tanto è vero che in non pochi casi i nostri sacerdoti sono andati a prendere i disabili che a quel tempo erano alloggiati addirittura in pagliai: i genitori li tenevano nella parte più remota della casa per non ‘farli vedere’. Sono i ‘buoni figli’, quei – come diceva don Guanella -“ragazzi o adulti che hanno impedite le facoltà intellettuali e che, pur vivendo in uno stato di perpetua infanzia, il più delle volte sono capaci di qualche miglioramento”. Attraverso il nuovo programma di riabilitazione abbiamo inserito la scuola per loro; il lavoro nei campi per loro, bisognosi come sono di un contatto diretto e vivificante con la natura; assumendo inoltre tutte le nuove terapie del caso, l’acustica, l’oculistica, il linguaggio, le terapie per gli arti superiori e inferiori. Abbiamo cercato di far camminare chi era su una carrozzella. Il disabile è stato collocato nel cuore della casa, con un’assistenza personalizzata. Qui si sono incominciate a fare le cartelle cliniche, sono incominciati a venire professori che già conoscevano bene la materia e hanno trovato un ambiente particolarmente stimolante… si è andati avanti per altri decenni assistendo con amore centinaia e centinaia di ‘ragazzi’, interni, semi-esterni, esterni.

    Conoscendo il grave problema dei costi sanitari nella società occidentale, anche in Italia e ancor di più in alcune regioni, facile pensare che per voi negli ultimi anni le preoccupazioni non siano mancate…

    E’ vero, da qualche tempo tutto il gran lavoro appassionato che abbiamo fatto e vogliamo continuare a fare ha incominciato a incontrare le prime difficoltà concrete, mai prima d’ora sentite in tale misura. Negli Anni Ottanta e Novanta si collaborava in maniera molto intensa e sincera con le istituzioni pubbliche. Venivano, controllavano, evidenziavano la nostra altissima qualità di assistenza… l’Opera don Guanella era in quegli anni portata come un fiore all’occhiello da tutti gli amministratori, dal Comune e dalla Regioni, gli enti con cui ci troviamo a confrontarci direttamente.

    Poi che cos’è successo?

     

    Lentamente il problema economico ha incominciato a far decrescere l’attenzione verso di noi da parte dell’ente pubblico. Agli inizi degli Anni Novanta eravamo stati ‘costretti’, dalla nuova legge-quadro, a introdurre una serie di miglioramenti nei nostri spazi, così che sempre più soddisfacessero le esigenze richieste dalla legge per il benessere dei pazienti. Dunque abbiamo anche dovuto sostenere i costi, non minimi, degli adattamenti.  Però poi gradualmente sono diminuiti gli aiuti finanziari statali… da 4-5 anni sentiamo pesantemente la crisi: “Siccome non ci sono soldi, ci dice la Regione, dovrebbe tagliare tot sul budget… e poi tagliare ancora tot... Prima, con Marrazzo, ci hanno tagliato l’8%; con la Polverini hanno aggiunto un altro 4%... perciò riceviamo oggi il 12% in meno di quanto sarebbe necessario per continuare a portare avanti con piena soddisfazione la nostra attività. Oggi, per tutta la nostra popolazione di poveri, oltre 200 interni, 60 semiresidenziali, 100 esterni riceviamo un ottavo in meno del pattuito, più di un milione di euro l’anno…per noi è un ‘buco’ spaventoso. Solo per pagare mensilmente il nostro personale (oltre 200) arriviamo a 550-600 mila euro.

    Si possono ipotizzare contromisure incisive?

     

    Non lo so. Mi chiedo dove andremo a finire. Con le istituzioni non si riesce quasi più a dialogare su questo punto. Abbiamo ormai incominciato a non prendere disabili nuovi. Poi: man mano che i nostri operatori raggiungono l’età pensionabile, non li sostituiamo più. Terzo: stiamo rivedendo come rilanciare la casa per poterci trovare delle alternative. Quarto: la legge chiederà forse alle famiglie di contribuire all’assistenza. Ma i nostri ‘ragazzi’, che entrano a 18 anni, sono in larga parte in età adulta e avanzata e non hanno più famiglie: dopo i 40 anni sappiamo del resto che in genere i debili mentali sono lasciati soli, la famiglia non ce la fa più, fratelli e sorelle si disinteressano. Sotto questo aspetto non c’è da sperare. Ci stiamo chiedendo il perché anche della dimenticanza dello Stato verso i debili mentali. La risposta non può essere che una sola: tutto ormai obbedisce a un criterio economicistico… perciò se rendi ti aiutiamo; se no, arrangiati. Tutti si devono inchinare, la vita può aspettare, le istituzioni segnano il passo. Eppure la casa ha una potenzialità enorme, sia per i fabbricati che la compongono, sia per i terreni (14 ettari): questa, diciamolo chiaramente, è una vera città della carità.  Si può farne a meno?

    al>Da s�" o �| (� cramento della Penitenza, ha voluto l’assoluzione collettiva e non individuale. Richiamato più volte da Roma (come nel 1998), è andato avanti per la sua strada. Nel 2006 poi, in una lettera pastorale, ha annunciato di volere l’ordinazione sacerdotale e di voler riconoscere pastori protestanti per la celebrazione dei riti cattolici. Eppure il dialogo con il Vaticano è continuato. Purtroppo non c’è stato niente da fare. Ad esempio, chiestogli di venire a Roma per incontrare alcuni cardinali come Re, Arinze, Levada, ha risposto di non avere tempo. Poi è venuto, ha avuto un incontro, la Curia ne stava preparando un secondo, ma il vescovo Morris se n’era già tornato in Australia.

    Ha incontrato anche Benedetto XVI?

    Sì, nel 2009. Ma ha rifiutato di dimissionare. Inevitabilmente, dopo un altro paio d’anni, si è giunti alle dimissioni forzate. Una vicenda penosa, e non da parte della Santa Sede che ha mostrato una grande pazienza. E una vicenda molto triste: il vescovo Morris ha dimostrato grandi capacità pastorali, ha lavorato anche molto bene sul tema della lotta alla pedofilia. Purtroppo era un solista, che non ha mai sentito la bellezza e la necessità del lavorare insieme, del condividere. Non ha mai voluto cambiare le sue opinioni sui temi citati. E’ un grande ostinato. Forse non è un gran teologo, un teologo di prima classe, non è riuscito mai a capire le conseguenze delle sue opinioni. Oggi però è prioritario mantenere la comunione della diocesi con la sede di Pietro, aiutare l’amministratore apostolico monsignor Brian Finnigan, vescovo ausiliare di Brisbane a ripristinare l’identità cattolica.

     

    Quali le reazioni dei poco più di sessantamila fedeli diocesani di Toowoomba?

     

    Per quanto mi riguarda, a Sydney, non ci sono state grandi reazioni. Sì, qualche sacerdote ha protestato, c’è stato un documento di un gruppo di ‘progressisti’. Invece nella diocesi di Toowoomba, il vescovo Morris è appoggiato dalla maggioranza dei sacerdoti. Ora, però, ripeto che prioritario è ricercare l’unità della diocesi e la piena comunione con Roma. 

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