GIORNO DEL RICORDO AL GIULIO CESARE: PARLATO, MICICH – SHOAH A FIUME – di GIUSEPPE RUSCONI – www.rossoporpora.org – 27 febbraio 2024
Lo storico Giuseppe Parlato al liceo classico Giulio Cesare di Roma per il Giorno del Ricordo con Marino Micich e il testimone Claudio Smareglia. Il 23 gennaio 2024 invece al Ministero della Cultura si è tenuto un Convegno sulla Shoah a Fiume, promosso dalla Società di studi fiumani.
Secondo (buona e viva) tradizione il liceo classico Giulio Cesare di Roma anche quest’anno ha voluto riflettere sulla tragedia che si sviluppò dopo il 1943 ai confini orientali d’Italia, caratterizzata dall’uccisione (nelle foibe, ma non solo) di migliaia di cittadini e dall’esodo di oltre 250mila istriani, dalmati, giuliani che dovettero abbandonare la terra dei padri. In larga parte furono esuli in un’Italia che a volte non li riconobbe; molti tra loro dovettero sperimentare come sapeva di sale il pane della madrepatria anche a causa dell’atteggiamento ostile del partito comunista italiano. E dell’oblio calato sulle loro vicende per sessant’anni, a causa di ragioni diplomatiche (non entrare in conflitto con Tito che nel 1948 aveva rotto con Mosca), reticenze di partito, indifferenza ai destini dei confini orientali.
E’ così che, anticipando di cinque giorni la ricorrenza, diverse classi del liceo – accompagnate dai loro docenti Alberto Lentini e Monica Vanni - si sono ritrovate lunedì 5 febbraio in Aula Magna per ascoltare lo storico Giuseppe Parlato, il direttore dell’Archivio del Museo storico di Fiume Marino Micich e il testimone Claudio Smareglia, originario di Pola.
LA RELAZIONE DELLO STORICO GIUSEPPE PARLATO
Introdotto dal dirigente scolastico Paola Senesi, Giuseppe Parlato – che è anche presidente del Comitato scientifico del ‘Comitato nazionale 10 febbraio’- ha subito evidenziato che quella dell’esodo è la storia di un popolo (istriano, dalmata, giuliano) che parla italiano e che era insediato sulle coste adriatiche, ancor prima che nei secoli XIII-XV diventassero possedimento della Serenissima Repubblica di Venezia. Un popolo che “ha fatto cultura” per tanti secoli, parlando una lingua evoluta dal latino a un dialetto veneto, infine, già dalla fine del XIX secolo, a un “ottimo italiano”. Un popolo che popolava le città (ce n’era un altro radicato, quello slavo, insediato nelle campagne e nell’entroterra), con una importante classe dirigente fatta di sindaci, professori, imprenditori, avvocati, commercianti. Non a caso era dalmata di Sebenico (vicino a Spalato) un linguista come Niccolò Tommaseo, che contribuì con il suo ardore patriottico al rafforzamento della consapevolezza ‘italiana’ della sua gente, che del resto aveva in grande onore Dante Alighieri.
Parlato ha poi richiamato in sintesi alcuni momenti storici che caratterizzarono dall’Ottocento le vicende delle terre italiane dei confini orientali, in cui – dopo il 1866 (terza guerra di indipendenza italiana, annessione al Regno d’Italia del Veneto e dell’odierno Friuli) – l’Austria-Ungheria, preoccupata di una crescita del sentimento nazionalistico italiano sulle coste adriatiche, cercò di favorire gli slavi in funzione anti-italiana. Dopo la Prima Guerra Mondiale, quelle terre divennero parte del Regno d’Italia (Venezia Giulia e in Dalmazia la città di Zara. La città di Fiume fu attribuita all’Italia nel 1924). Prima il governo liberale poi soprattutto quello fascista cercarono di concretizzare nel territorio un processo di italianizzazione, che colpì sloveni e croati, “analogamente a quanto successe in Alto Adige”. Per quanto riguarda la Seconda Guerra Mondiale, già dal 1943 sono evidenti le mire dei partigiani comunisti jugoslavi agli ordini di Tito: Tito vuole arrivare a Trieste (occupazione spietata per oltre un mese nel maggio 1945) e nel contempo annettersi i territori adriatici, sulle cui coste risiedeva un ‘blocco italiano’ che “rifiutava di passare da una dittatura all’altra”. Da ciò la strategia terroristica di Tito, tesa a costringere gli italiani ad andarsene: tra infoibamenti e annegamenti di massa (come a Zara, con la pietra al collo), con eliminazione previa umiliazione di intellettuali, politici, sacerdoti, fascisti, afascisti e anche antifascisti. Niente più lingua italiana, niente più pratica religiosa, niente più proprietà individuale. La logica cinica di Tito, da pulizia etnica ma anche ideologica, colpì inoltre con spietatezza molti slavi anticomunisti (si sta ancora cercando di far luce sulle foibe in Slovenia – spesso vicine ai campi di concentramento comunisti - con presumibilmente decine di migliaia di assassinati), tutti coloro insomma che avrebbero potuto costituire una minaccia per il regime.
Il disegno di Tito ebbe successo, tanto è vero che la configurazione umana delle odierne città istriane e dalmate è stata stravolta: gli italiani ormai sono in esse numericamente “piccoli gruppi residuali”.
Rispondendo ad alcune domande di studenti e docenti, il professor Parlato ha richiamato la volontà di Tito di concretizzare il suo progetto politico, a spese non solo del gruppo etnico italiano, ma anche di chi - slavo – rifiutava di soggiacere al regime comunista. Per quanto riguarda il numero degli infoibati, il relatore ha evidenziato la difficoltà di dare cifre precise. Bisogna essere consapevoli che le foibe erano profonde fino a 2-300 metri, che gli infoibati erano legati e i primi della fila – uccisi a colpi di pistola - trascinavano nel baratro gli altri, che sono stati ritrovati in genere poveri resti cui è stato impossibile dare un nome, che in alcune foibe sono state gettate bombe per meglio nascondere il crimine: impossibile realisticamente sapere quanti vi perirono, impossibile dar loro sepoltura. Un tentativo di cancellare la memoria che comunque non impedisce di ritenere ragionevolmente che le foibe ‘italiane’ contenessero almeno cinquemila corpi. Come detto, per quelle slovene ancora si scava.
Nel suo intervento Marino Micich ha dapprima evidenziato come a Roma ci siano 125 vie e piazze richiamanti le terre giuliano-dalmate (anche vicino al Giulio Cesare di corso Trieste), con un quartiere della stessa denominazione. Il direttore dell’Archivio del Museo storico di Fiume, dopo aver evocato le pagine dolorose del dramma dell’esodo, ha poi richiamato genesi, approvazione (Camera dei deputati, 11 febbraio 2004, con 502 voti contro 15 – Rifondazione comunista – e 4 astensioni; Senato il 16 marzo 2004, senza opposizione), promulgazione (30 marzo 2004) e concretizzazione del Giorno del Ricordo: la prima volta fu il 10 febbraio 2005, essendo presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. La data del 10 febbraio fu scelta perché proprio in quel giorno del 1947 fu firmato il trattato di Parigi, in conseguenza del quale alla Jugoslavia furono assegnati Istria (Pola), Quarnaro (Fiume), Zara e la maggior parte della Venezia Giulia. Micich ha ricordato anche Giorgio Napolitano e l’onorificenza data ai congiunti degli infoibati che non avevano commesso crimini (quest’anno la cerimonia si è svolta a Palazzo Chigi).
Intensa la testimonianza di Claudio Smareglia, nato a Pola nel 1947, esule con la sua famiglia, già pilota dell’Alitalia: “Con il mio ricordo non voglio chiedere vendetta. Sono passati quei tempi. Voglio solo fare storia”. Di famiglia istriana già dal 1649, Smareglia ha evidenziato l’amara ragionevolezza dell’esodo, essendo ormai – negli anni del secondo dopoguerra - diventato rischioso per la propria incolumità il solo fatto di essere italiani. Il padre di Smareglia era nato nel 1898, combattè per l’Impero Austro-ungarico (mentre un fratello lo fece nell’esercito italiano), disertò, poi divenne professore di lettere e anche libraio. Non si era mai iscritto al partito nazionale fascista, capeggiò il Comitato di Liberazione nazionale di Pola; fu incarcerato dai tedeschi a Buchenwald nel 1944, tornò a Pola nel settembre 1945 in un clima completamente diverso. Non ha partecipato all’esodo imbarcandosi sulla nave Toscana, voleva rimanere nella sua terra. Si vide però chiudere la libreria, “luogo di italianità”; continuando a insegnare un brutto giorno si vide arrivare il commissario politico jugoslavo che gli rimproverò di parlare di Dante Alighieri, gli prese i libri e li buttò per terra. Convocato dalla polizia politica comunista (Osna), fu incarcerato come “nemico del popolo” e “spia dell’Occidente” e passò due anni in prigione: “Noi eravamo restati senza protezione e soffrimmo la fame”. Nel 1950 gli Smareglia furono prelevati e portati al confine italiano, senza documenti: “Andammo a finire con mamma, nonna e uno zio in un enorme hangar a Trieste e vivevamo in un box di compensato di quattro metri per cinque, un tavolo e minestra di verdure con cicoria. Fino al 1957 non ho mai avuto un giocattolo. Mio padre era riuscito a trovare un posto da insegnante in una scuola privata di Mestre”. Poi la famiglia lasciò Trieste e Claudio approdò a Ostia, dove risiede da 55 anni. “La nostra è una vicenda di esuli che appartiene alla storia d’Italia e vorremmo se ne parlasse serenamente”, ha concluso.
LA TRAGEDIA DELLA SHOAH A FIUME: UN CONVEGNO AL MINISTERO DELLA CULTURA
Fiume non è solo una città simbolo per chi ha dovuto salire il Calvario dell’odio comunista jugoslavo (sfociato negli infoibamenti e nell’esodo). Fiume ha conosciuto anche la tragedia della Shoah: basti pensare che la comunità ebraica locale (ben presente nella quotidianità) contava circa 1800 persone, di cui la maggioranza prese la via dell’esilio e degli oltre 400 deportati dai nazisti tornarono solo in 48 (dati forniti da Giovanni Stelli). Un’altra pagina dolorosa e vergognosa della storia che è stata approfondita durante il Convegno promosso martedì 23 gennaio, in collaborazione con il Ministero della Cultura che l’ha ospitato, dalla Società di Studi fiumani-Archivio Museo storico di Fiume. Una parte importante della mattinata è stata dedicata alle testimonianze di Gianni Polgar (ebreo fiumano) e delle sorelle Andra e Tatiana Bucci (pure fiumane che, da bambine, sono state deportate a Auschwitz e da lì sono tornate).
Moderato da Marino Micich, direttore dell’Archivio del Museo storico di Fiume, l’ìncontro è stato caratterizzato inizialmente dalle considerazioni dello storico Giovanni Stelli che - oltre a rievocare alcune personalità dell’ebraismo fiumano dall’Ottocento all’esodo - ha rivendicato l’importanza fondamentale della memoria nello sviluppo della storia; “Non a caso i regimi totalitari hanno sempre cercato di abolire la memoria”. La senatrice Ester Mieli – salutati gli studenti presenti, tra cui una classe del liceo Giulio Cesare di Roma – ha rievocato quella diffusa indifferenza, “di quelli che si sono girati dall’altra parte”, che ha consentito la tragedia. Anche ai nostri giorni siamo confrontati con un’indifferenza che fa male, sorprende, preoccupa, “perché pensavamo che i magazzini dell’odio non fossero più pieni”.
Franco Papetti (presidente dell’Associazione fiumani nel mondo) ha sottolineato la complicità di non pochi italiani nella Shoah e anche precedentemente, quando nel 1938 furono promulgate le leggi razziali, “che fecero diventare di serie B molti cittadini”. A Fiume, ha proseguito Papetti, la comunità ebraica era molto ben integrata e si ritrovava in due sinagoghe, quella ‘grande’ di via del Pomerio (distrutta dai tedeschi nel gennaio 1944) e quella degli ‘ortodossi’, costruita in stile razionalista nel 1930 in via Galvani e sopravvissuta alla guerra. Oggi a Fiume gli ebrei sono meno di cento.
Nato a Fiume, il maestro Francesco Squarcia ha reso omaggio alle vittime della Shoah fiumana eseguendo l’arrangiamento per sola viola del tema del noto film del 1993 Schindler’s List. Stefania Buccioli, della Società filosofica italiana, ha ricostruito l’iter che ha portato l’Italia a istituire nel 2000 il Giorno della Memoria (l’Onu lo fece nel 2005): per la relatrice il momento di svolta per il risveglio delle coscienze fu costituito nel 1961 dal processo – con condanna a morte - ad Adolf Eichmann (figura chiave della ‘soluzione finale’ nazista) a Gerusalemme. Da quei mesi si moltiplicarono le testimonianze degli scampati alla morte nei lager, il che permise a un’opinione pubblica ancora diffidente di comprendere veramente che in quei luoghi fu applicata la dottrina dello sterminio degli ebrei (e non solo). Per Stefania Buccioli “non ci può essere nulla di rituale e di formale nell’ascolto dei testimoni” come talvolta si sente dire: del resto quelle scolastiche a Auschwitz non possono essere certo definite ‘gite’, ma “visite di luoghi in cui l’orrore si è compiuto”.
LA TESTIMONIANZA DI GIANNI POLGAR
Dopo la proiezione di un breve documentario sul musicista ebreo Marcel Tyberg (viennese trasferitosi a Fiume e Abbazia) e morto a Auschwitz (regista Michelangelo Gratton con la collaborazione di Marino Micich), ha portato la sua testimonianza, pacata e nel contempo sentita come sempre, l’ebreo fiumano Gianni Polgar. Nato nel 1936, di famiglia di origine ungherese, con il papà avvocato (laureato a Bologna) e la mamma iscritta fino alle leggi razziali al Partito nazionale fascista, si trasferisce a Roma nella primavera del 1939, raggiungendo il papà che era diventato segretario dell’Unione delle Comunità ebraiche. A sei anni Gianni Polgar si rese conto per la prima volta di essere considerato diverso dai coetanei, essendogli vietato di partecipare ai raduni dei figli della lupa. I compagni di scuola erano tutti ebrei… arrivò il 25 luglio 1943, con il governo Badoglio (“ma le leggi razziali non furono abolite, vero padre Tacchi Venturi, intermediario del Vaticano con il regime?”). Poi l’occupazione nazista: qui Polgar ha ribadito di essere contrario alla dottrina della responsabilità collettiva di un popolo… “la responsabilità è di ogni individuo, non di un intero popolo… noi sappiamo che significhi, dato che per duemila anni il popolo ebraico è stato caricato della responsabilità per la morte di Gesù”. Il 7 ottobre 1943 furono deportati 2000 carabinieri e “papà ci ha fatto abbandonare la casa in tempo, prima del 16 ottobre”, giorno della razzia. Dopo alcuni spostamenti, Polgar fu iscritto al Collegio San Giuseppe de Merode a Piazza di Spagna (gestito dai Fratelli delle Scuole cristiane) sotto falso nome (Franco Derenzini): ufficialmente risultava un orfano cristiano. Ogni tanto veniva a trovarlo una presunta zia (in realtà la mamma): ”Ma io, bambino di sette anni e mezzo, non potevo abbracciarla, né darle una carezza… è questa una ferita che ancora sanguina”. Il 4 giugno 1944 Roma viene liberata: e papà porterà i figli (anche la sorella) a fare un giro in carrozzella. Intanto da Fiume erano stati deportati la nonna, lo zio, la zia, un cugino: per loro il destino fu opposto.
Molto dettagliata e commovente anche la testimonianza di Andra e Tatiana Bucci, le due sorelle che – ritenute gemelle da Mengele – furono risparmiate dalla morte perché funzionali alle criminali sperimentazioni del medico nazista.
Il Convegno si è chiuso con l’intervento dello storico Claudio Procaccia (direttore del Dipartimento per i beni e le attività culturali della Comunità ebraica di Roma) che ha osservato come l’Europa della Belle Epoque fosse una società piena di contraddizioni, ma in pieno sviluppo, grazie alle integrazioni tra popoli, esperienze, culture, religioni. Purtroppo non durò. E sembra paradossale che proprio le peggiori tragedie si siano sviluppate nei Paesi a più alto livello culturale ed economico, con la collaborazione attiva di “una lunga serie di studiosi”. In quel periodo, ha chiosato Procacci, “è mancato un solido sistema valoriale, condiviso e caratterizzato dalla capacità di stare insieme”.
INTELLIGENZA ARTIFICIALE: PAOLO BENANTI E ROBERTO BASILI MARTEDI’ 5 MARZO 2024 AL CINEMA DELLE PROVINCIE (20.30)
Nell’ambito degli incontri culturali mensili del gruppo Cultura della parrocchia romana di Sant’Ippolito (vedi ad esempio https://www.rossoporpora.org/rubriche/vaticano/1170-parrocchia-gaza-dolore-e-indignazione-ancora-riccardi-a-sant-ippolito.html ) martedì 5 marzo 2024 si approfondirà il tema delle opportunità e dei rischi dell’intelligenza artificiale. A parlarne (e colloquiare con il pubblico) fra Paolo Benanti (presidente della Commissione governativa sull’intelligenza artificiale, oltre che membro dell’analogo Comitato delle Nazioni Unite) e il professor Roberto Basili dell’Università di Tor Vergata. L’incontro ( ingresso libero) si terrà come di consueto presso il Cinema delle Provincie, viale delle Provincie 41 (piazza Bologna), con inizio alle 20.30.