GIACOMO BIFFI: PENSIERI LIBERI DI UN GRANDE UOMO DI CHIESA – di GIUSEPPE RUSCONI – www.rossoporpora.org – 16 luglio 2015
La morte dell’ottantasettenne cardinale-arcivescovo emerito di Bologna (milanese di nascita e di spirito), avvenuta l’11 luglio alle 2.30, ci ha spinto a ritrovare una parte della sua numerosa pubblicistica, di forte stimolo per il cristiano (e non solo) che voglia vivere la propria testimonianza nelle difficili contingenze attuali. Per ricordarlo secondo verità non c’è modo migliore che riproporre alcuni (pochi) passi dei suoi scritti, attuali come non mai.
Letture e attenzioni (da ‘Annotazione previa’ in “Pinocchio, Peppone e l’Anticristo e altre divagazioni”, ed. Cantagalli, Siena, 2012): Le mie attenzioni e le mie letture hanno spesso sconfinato dai ‘sacri recinti’. Non mi sono mai limitato a occuparmi soltanto di teologia e di pastorale, di opere patristiche e di documenti conciliari. Tuttavia le divagazioni (…) a dire il vero sconfinavano sì dall’ambito rigorosamente ecclesiastico, ma non da quello della vita evangelica e della contemplazione della verità che salva: Collodi, Guareschi, Solovev, Chesterton, Bacchelli, Tolkien – tutti ‘laici’ nel senso migliore e più autentico del termine – mi hanno fatto davvero crescere nella ‘intelligenza della fede’. Anche la conoscenza un po’ ravvicinata – al di là dei luoghi comuni e dei giudizi ‘politicamente corretti’ – di avvenimenti apparentemente ‘mondani’, come la Rivoluzione francese e il Risorgimento, mi hanno aiutato ad aderire con maggiore consapevolezza al disegno provvidenziale del Padre e alla signoria di Cristo., Re dell’universo, della storia e dei cuori.
La Volpe e il Gatto (ibidem, “Carlo Collodi ovvero Il ‘mistero’ di “Pinocchio”, saggio del 2002 rivisto e rielaborato): (In ‘Pinocchio) ci sono anche i ‘cattivi’ tra quanti ci capita di incontrare. Collodi su questo non ha alcun dubbio. La sua fantasia li rappresenta quasi esemplarmente nelle pittoresche figuire della Volpe e del Gatto; figure indimenticabili e artisticamente attraenti, ma descritte in una malvagità che non ha attenuanti, e perciò come immeritevoli di ogni pietà.
“Abbi compassione di noi!”, dicono alla loro antica vittima nell’ultima apparizione, quando sono ormai ridotti all’estrema indigenza; ma a Pinocchio viene messa in bocca ripetutamente una risposta irridente: “Addio, mascherine!”. L’autore li inchioda dunque alle loro responsabilità personali; non ricerca spiegazioni al loro deplorevole comportamento nella struttura ingiusta della società o in qualche trauma infantile o in qualche alterazione psichica.
Tra i ‘cattivi’ la Volpe e il Gatto però non sono i peggiori. Non intendono corrompere e indurre al male; mirano piuttosto a ingannare gli innocenti a proprio vantaggio, cercando di cavare profitto dalla loro semplicità: essi sanno che la ‘dabbenaggine’ è spesso la caratteristica delle ‘persone dabbene’.
L’Omino mellifluo (ibidem): Il Gatto e la Volpe sembrano impersonare una cattiveria che non eccede la nostra realtà naturale. (…) Ma il Collodi, con sorprendente vigore speculativo, si eleva fino a mettere in campo una forza perversa trascendente, quasi una potenza assoluta di male, che non attenta più soltanto alle ‘cose’ dell’uomo, bensì all’uomo stesso, derubandolo addirittura della sua stessa identità, aliena dolo e snaturandolo fino a fargli perdere la sua dignità originaria.
Questa forza perversa trascendente è raffigurata dall’Omino che trascina i ragazzi al Paese dei balocchi: egli è magistralmente delineato come un alacre e sempre desto ministro del male e come un persuasore convincente dalla “voce carezzevole, come quella di un gatto che si raccomanda al buon cuore della padrona di casa”. IN realtà, egli si rivela alla fine un tiranno crudele e uno sfruttatore implacabile dei malcapitati che riesce a raggiungere e ad acquisire. (…) (L’Omino) assume connotati inattesi: non ostenta niente di repellente e di spaventoso; al contrario è tutto rivestito di bontà e di dolcezza. Non si propone di incutere terrore, ma di lusingare e di sedurre. (…) Oseremmo pensare che in tutta la cristianità, tra le varie raffigurazioni artistiche e letterarie del nemico dell’uomo che sono state immaginate, non ce n’è una più originale, più alta e più vera di questa.
Don Camillo e Peppone: il sì sì, no no (ibidem, “Giovanni Guareschi ovvero la teologia di Peppone”, commento del 1999, rielaborato, a due racconti di Guareschi): (Nell’ “Anonima”) viene affrontato esplicitamente il problema – serio e rilevante per Guareschi – del rapporto tra il servizio alla verità e la tirannia delle esigenze letterarie. Peppone l’avverte come qualcosa di intrigante e addirittura di angoscioso. “la letteratura – egli dice – è una porca faccenda che serve soltanto a imbrogliare le idee, perché va a finire che uno, invece di dire quello che vorrebbe lui, dice quello che vuole la grammatica e l’analisi logica”. “Adesso parli giusto”, gli osservò don Camillo (che qui è senza dubbio portavoce dell’autore). “Ha bisogno di molte parole – gli dice ancora – chi deve mascherare la sua mancanza di idee o chi deve mascherare le sue intenzioni”.
Viene allora a proposito l’idea di Peppone, che è di cancellare dal vocabolario tutte le parole che sono in più: ce ne sono troppe rispetto al numero delle cose da dire. Al momento egli non ci pensa, ma in fondo il suo è lo stesso parere di Gesù Cristo che ha detto: “Sia il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno”.
Bisogna riconoscere che dal tempo di Guareschi (NdR: Anni Cinquanta del Novecento) nell’uso del linguaggio c’è stato perfino un peggioramento. Sicché oggi l’inizio obbligato della nostra redenzione sociale sarebbe quello di cominciare a chiamare le cose soltanto con il loro nome, senza camuffamenti verbali e senza quelle inutili prolissità che spesso finiscono coll’essere messe a servizio dell’ambiguità e della confusione.
E’ per esempio strano (ma non tanto) che la famosa legge 194 – con la quale si è legalizzato e pubblicamente finanziato l’aborto – si intitoli con bella sfacciataggine legge per la tutela della maternità. O che ci si dimentichi che per indicare la convivenza more uxorio di due persone non sposate, la lingua italiana abbia già la parola univoca e pertinente che è il ‘concubinato’, senza che ci sia bisogno di perifrasi imprecise e un po’ alienanti come ‘unioni di fatto’ o ‘unioni affettive’.
Don Camillo e Peppone: il dialogo (ibidem): Quelli di Guareschi sono senza dubbio personaggi ‘preconciliari’; ma nessuno potrebbe affermare che non ci sia dialogo tra don Camillo e Peppone. Il dialogo è anzi la sostanza stessa della loro leggendaria vicenda. Ogni giorno essi si incontrano, si confrontano, misurano con straordinaria libertà le loro rispettive convinzioni.
Ma don Camillo (…) non si sogna neppure di pensare che per dialogare efficacemente dobbiamo, come oggi si sente dire, “guardare a ciò che ci unisce e non a quello che ci divide”. (…) Egli sembra sicuro (e Peppone con lui) che sia vero il contrario, almeno quando ciò che ci differenzia e ci contrappone non è motivato e connotato dal capriccio e dal puntiglio, ma dall’amore per la verità e la giustizia. (…) Appunto per questo bisogna anche dire che il dialogo per come è tratteggiato da Guareschi appare evangelicamente giusto e fruttuoso. La salvezza dei fratelli non verrà dalla capacità degli uomini di Chiesa di schivare con mondana eleganza ciò che può inquietare e pungere una pace delle coscienze obiettivamente infondata e non generata dalla verità; potrà venire solo da una limpida e coraggiosa testimonianza resa, per amore del prossimo, alla luce salvifica di Dio.
Valori assoluti e valori relativi (ibidem, “Vladimir Sergeevic Solovev ovvero La profezia dell’Anticristo”, saggio del 1991 arricchito e rielaborato): Ci sono dei valori assoluti (o, come dicono i filosofi, trascendentali): tali sono, ad esempio, il vero, il bene, il bello. Chi li percepisce e li onora e li ama, percepisce, onora, ama Gesù Cristo, anche se non lo sa e magari si crede anche ateo, perché nell’essere profondo delle cose Cristo è la verità, la giustizia, la bellezza.
Ci sono valori relativi (o categoriali), come il culto della solidarietà, l’amore per la pace, il rispetto per la natura, l’atteggiamento di dialogo, ecc… Questi meritano un giudizio più articolato, che preservi la riflessione da ogni ambiguità. Solidarietà, pace, natura, dialogo possono diventare nel non cristiano le occasioni concrete di un approccio iniziale e informale a Cristo e al suo mistero. Ma se nella sua attenzione essi si assolutizzano fino a svellersi del tutto dalla loro oggettiva radice o, peggio, fino a contrapporsi al’annuncio del fatto salvifico, allora diventano istigazioni all’idolatria e ostacoli sulla via della salvezza.
Se il cristiano, per amore di apertura al mondo e di buon vicinato con tutti, quasi senza avvedersene stempera sostanzialmente il fatto salvifico nella esaltazione e nel conseguimento di questi traguardi secondari, allora egli si preclude la connessione personale con il Figlio di Dio crocifisso e risorto, consuma a poco a poco il peccato di apostasia, si ritrova alla fine dalla parte dell’Anticristo.